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Vi racconto i miei anni a Repubblica, tra i vizi di Scalfari e scherzi al telefono

Nel suo libro "Senza più sognare il padre" il giornalista svela i retroscena del "giornale partito": pettegolezzi, litigi e censure agli articoli

Giulio Bucchi
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di Francesco Borgonovo Partiamo dalla scena più memorabile. Notte, a casa di Giovanni Minoli. Protagonista: Paolo Guzzanti. Comprimario: Ezio Mauro, allora notista della Stampa, oggi  direttore di Repubblica. È  quest'ultimo a cavar fuori dalla tasca un'agenda piena di numeri di personalità politiche di primo piano. La porge a Guzzanti, al quale il gruppetto ha affidato un compito: deve chiamare «tutti i politici reperibili e i consiglieri della Rai» imitando anzi impersonando, come lui sa fare benissimo, il presidente Pertini. A ciascuno di essi deve parlare del contratto di Enzo Biagi con la tv pubblica, che sta per scadere. Ad alcuni, il falso capo di Stato dirà che deve essere rinnovato. Ad altri, spiegherà perché va  eliminato. Uno scherzo coi fiocchi.    Ma prima ci vuole una prova. Il Guzzanti/Pertini chiama Gianni Minà, cogliendolo nel sonno: «Gianni, tu sai, nevèro, che io sto per partire per un lungo viaggio in America Latina, nevèro? (...) Tu sei l'unico di cui mi fido perché conosci bene quei posti e vorrei che tu mi disegnassi con le tue mani delle mape». Minà abbocca e acconsente a disegnare «mape» a colori per il presidente. Non solo, crede anche all'invito a pranzo per il giorno dopo. Stessa sorte tocca ai politici che Guzzanti, Mauro e Minoli chiameranno successivamente. Il mattino seguente, alcuni si presenteranno per la colazione da Pertini, che ovviamente non li stava aspettando. La beffa è perfettamente riuscita. I burloni - E se è difficile immaginarsi l'austero Ezio Mauro nelle vesti del burlone, il talento attoriale di Guzzanti è universalmente noto e si ampiamente riversato nei suoi figli Corrado, Caterina e Sabina. Una dote di cui il giornalista racconta  nel suo nuovo libro, Senza più sognare il padre (Aliberti). Un testo non solo divertentissimo da leggere per via degli innumerevoli aneddoti che trasuda, ma anche molto importante per capire come è nato e cresciuto il giornale-partito chiamato Repubblica. In quella redazione,  Guzzanti ha lavorato dal 1976 al 1990. È stato una delle firme più importanti del quotidiano, ha conosciuto bene - e ha amato, si può dire - Eugenio Scalfari. Ricambiato, almeno per un certo periodo. Tanto che   il giorno in cui Barbapapà venne a sapere che Guzzanti era intenzionato a passare al Corriere, lo aspettò in redazione  e si sdraiò per terra. Dicendogli che, se voleva andarsene, doveva passare sul suo corpo. Guzzanti non passò.     In seguito, ha avuto come direttori Ezio Mauro e Paolo Mieli. Dunque può raccontare nel dettaglio come Repubblica sia diventato un organo politico di indirizzo delle coscienze, uno strumento di lotta.  Ma prima finiamo di raccontare la storia degli scherzi. Abbiamo detto delle telefonate notturne del simil-Pertini e del caos istituzionale che provocarono. Ci fu un'ulteriore conseguenza. Il giorno dopo Guzzanti si presentò al giornale e fu accolto da un collega che angosciato gli chiese se per caso, imitando il presidente, avesse telefonato anche a Repubblica verso l'una e mezza. Guzzanti rispose che aveva fatto alcune telefonate, ma lì proprio non aveva chiamato. Ecco il disastro. Il dramma - A comporre il numero della redazione  era stato il vero Pertini. Gli aveva risposto il caporedattore centrale, il livornese Franco Magagnini. Costui aveva pensato di aver a che fare con una presa in giro guzzantiana e aveva risposto: «Oh, senti tu: vedi un po' di andare a fare in culo e di 'un rompe i 'oglioni, che noi qui si lavora».  Aveva mandato a quel paese il presidente della Repubblica.        Il povero Magagnini era una delle vittime predilette di Guzzanti. Un giorno, Paolo lo chiamò imitando la voce di Scalfari e gli comunicò che era licenziato. Magagnini, inferocito, si precipitò dal direttore, spalancò la porta del suo ufficio e diede in escandescenze. Salvo uscire dopo pochi secondi pallido in volto, dopo aver capito di essere stato gabbato. Questo episodio è rilevante per due motivi. Intanto perché Guzzanti descrive Magagnini come un militante comunista, leader del gruppo di cronisti che erano giunti a Repubblica da Paese Sera, quotidiano vicino al Pci. Persone ben selezionate, poiché a Botteghe Oscure «occorreva gente in gamba che sapesse restare fedele al partito anche in un luogo di libertinaggio intellettuale». I compagni avevano capito che il giornale di Scalfari sarebbe diventato il motore del pensiero di sinistra, e sentivano la necessità di avere amici all'interno.    In secondo luogo, la finta sfuriata con Magagnini spiega bene quale fosse l'atteggiamento di Scalfari. Fra le minacce preferite da Barbapapà  c'era il licenziamento per chi portasse i «calzini corti». Eugenio ci teneva ai modi aristocratici, rivendicava non per nulla l'appartenenza al gruppo del Mondo di Pannunzio. Anche se Carlo Laurenzi, che di quella rivista era stato firma importante, raccontò a Guzzanti che «Scalfari aveva cercato in ogni modo di entrare nella redazione del Mondo e nelle grazie di Pannunzio il quale, sosteneva Carlo, lo trovava troppo ambizioso e lo teneva alla larga. Fra le leggende dell'epoca c'era anche quella secondo cui il giovane Scalfari si era presentato in redazione in costume da tennista e subito invitato a tornare a casa e cambiarsi». Trombatura - Sin da allora, la massima aspirazione del Fondatore è stata quella di fare politica. E per un mandato operò anche come parlamentare socialista,   per venire poi trombato al momento della riconferma a causa del celebre episodio del «lei non sa chi sono io». Guzzanti lo riporta, con qualche correzione. Scalfari stava aspettando la sua compagna alla stazione di Milano, con la macchina parcheggiata in divieto di sosta. Fermato da un vigile, fece notare che anche un'altra auto era in sosta vietata. Il ghisa rispose che si trattava di quella del questore. «Se lui è il questore, io sono un deputato al Parlamento», rispose l'Eugenio. Esibì la tessera di deputato, e pure la patente, che però era tutta bagnata e illeggibile: Scalfari veniva dalle vacanze e indossava i pantaloncini da bagno. La faccenda si chiarì in commissariato. Ma la venne a sapere Craxi, grande avversario di Barbapapà nel Psi, che corse al Corriere a riferirla. «Ben gli sta a quell'ingrato», commentò.  Finita l'esperienza alla Camera, Eugenio tornò al suo giornale di allora, l'Espresso. Ed ecco un altro episodio che denota la sua vocazione all'indirizzo politico. Trovando una redazione, guidata da Livio Zanetti, che non rispondeva  ai suoi voleri, si dannò finché alla direzione non giunse il fido Giovanni Valentini. Del gruppetto che Scalfari non gradiva faceva parte anche Paolo Mieli, il quale - una volta passato a Repubblica - non ebbe vita facile e prese il volo verso la Stampa. Barbapapà pronosticò che  non avrebbe avuto successo. Quanto a Repubblica, si manifestò chiaramente come giornale-partito con il caso Moro, quando Scalfari divenne leader del «partito della fermezza». Guzzanti, simpatizzante craxiano, era per la trattativa e firmò un appello promosso da Lotta continua. «Fui aggredito quasi fisicamente», racconta. «Gianni Rocca (vicedirettore, ndr) mi chiamò “mascalzone”, fu fatto largo uso dell'aggettivo “traditore” e Scalfari mi fece una sfuriata sibilante». La redazione si divise in falchi e colombe, e le colombe non erano ben viste. Guzzanti scrisse un editoriale a difesa delle sue idee: «Scalfari lesse il mio articolo: “Abile”, disse. Poi lo gettò nel cestino». Alla morte di Moro, Eugenio sorprese il suo cronista a piangere e commentò: «Su, su! È un capitolo chiuso, dobbiamo andare avanti».  Ultimo, illuminante, episodio. Guzzanti viene inviato in Romania a raccontare la fine di Ceausescu. Giunto lì, vede che il regime è stato sostituito da una nuova dittatura gestita da agenti sovietici, che perseguitano gli studenti. Lo scrive nei pezzi. Ma da Repubblica gli fanno sapere che ne hanno le scatole piene del suo «patetico anticomunismo». Un bel dì eliminano il suo pezzo e lo sostituiscono con un collage di agenzie politicamente conveniente. Lasciando però la sua firma. Sarà l'ultimo servizio dell'ex figlioccio di Scalfari per il giornale-partito.    

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