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Sanremo 2020, Vittorio Feltri contro la kermesse: "L'apice del disgusto quando si alza il sipario"

Davide Locano
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Sono abbastanza vecchio per ricordare le prime edizioni del Festival di Sanremo. La guerra era terminata da pochi anni. Eravamo poveri, anzi poverissimi. Pochi avevano il bagno, il boiler era una rarità per signori. Non esisteva il frigorifero, c'era la ghiacciaia che funzionava col ghiaccio che si acquistava d' estate da ambulanti che si spostavano da un quartiere all'altro con un carretto trainato da cavalli. D' inverno in ogni casa funzionava la moscarola, un armadietto dove si collocavano il burro e il formaggio. La tv non sapevamo neanche cosa fosse, si ascoltava la radio attraverso la quale udivamo la voce di Nunzio Filogamo che apriva così il collegamento: "Amici vicini e lontani, buonasera". E gli ascoltatori andavano in brodo di giuggiole, ansiosi di gustarsi le canzoni. Che erano brutte quanto quelle di oggi. Ricordo "Vola colomba" intonata da Nilla Pizzi, praticamente una diva, "Papaveri e papere", una boiata pazzesca. Non importa, certe note, per chi era abituato al frastuono dei bombardamenti, erano un balsamo per le orecchie. Leggi anche: Vittorio Feltri: "Perché Luciana Lamorgese ha rotto le balle" L'indomani i garzoni dei panettieri, che in bicicletta (dotata di cestone sul portapacchi) portavano le michette a domicilio dei clienti, sfoggiando una canottiera nonostante il freddo, cantavano a squarciagola i motivi appena sdoganati dai microfoni radiofonici. Il Festival segnava il cambiamento dei costumi italici. Finiti gli incubi bellici e le lotte fratricide tra partigiani e fascisti, si inaugurava un' era spensierata, benché la miseria dominasse ancora. Le canzonette per quanto idiote infondevano una sorta di letizia utile alle famiglie affamate e ancora affette dai geloni (i termosifoni erano roba da ricchi, pochi) per tirare un sospiro di sollievo. Le automobili si contavano sulle dita di una mano, cominciavano a girare le Vespe e le Lambrette i cui proprietari erano guardati con ammirazione e una punta di invidia. Io in prima elementare dovevo ogni mattina recare a scuola un ciocco di legna secca per alimentare la stufa della classe, i miei compagni facevano la stessa cosa: si trattava di riscaldare l'aula. Questa era la nostra vita agra e il fatto che a un certo punto siano partite le ugole in quel di Sanremo introdusse nelle nostre meste abitudini un lampo di felicità, si fa per dire. Io suonavo il pianoforte in modo artigianale e imparai qualche motivo festivaliero, il che mi esaltava, mentre mia madre, sentendomi strimpellare, scuoteva la testa, pura commiserazione. Idem i miei fratelli. Passarono gli anni e abbastanza velocemente mi allontanai da Sanremo fino all'exploit di Modugno, mi riferisco a "Volare", che segnò una svolta da me giudicata importante benché non lo fosse. Se riascolto oggi il "capolavoro" mi fa venire i nervi. Da lustri ormai la manifestazione canora, pur continuando a mietere risultati strabilianti sul piano televisivo, mi sembra scaduta a livelli infimi. Mi immalinconisce, suscita in me la convinzione che si tratti di una sagra paesana e priva di qualsivoglia fascino. Comincia a disturbarmi un mese prima che vada in onda, propinando polemiche su questioni di lana caprina, invadendo le pagine dei giornali con pettegolezzi sciapi e senza costrutto. Quando poi si alza il sipario e attacca l'orchestra il mio disgusto raggiunge il diapason. Oggi siamo già a sabato e si volge alla fine, che è il momento più bello della kermesse perché introduce il termine dei gorgheggi più stupidi del mondo. Domani si torna alla normalità del calcio e delle trasmissioni politiche per quanto siano peggiori e più noiose di quelle canterine. Che Dio ci perdoni. di Vittorio Feltri

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