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Il mio ricordo di Berlinguer, il "santo" rosso

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Ignazio Stagno
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Mi ha sbalordito l'ondata di culto quasi religioso che ha accolto il film di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. Una folla di vip si è inchinata davanti all'ombra del segretario del Pci come si usa fare con i santi. E dopo l'inchino si prega, si chiede una grazia, si piange commossi. Ma Berlinguer era davvero un santo? No, era un leader politico di prima fila, nonostante i molti errori compiuti e l'handicap di non aver mai battuto il partito avversario, la Balena bianca democristiana. E penso che, almeno per me, l'unico modo per rendergli giustizia, senza inutili piaggerie, sia quello di ricordarlo in due o tre casi che ho vissuto anch'io. La prima volta che intervistai Berlinguer era il giugno 1976, vigilia elettorale. Lavoravo per il Corriere della sera e mi presentai alle Botteghe oscure con un quaderno, una biro e un elenco di domande. Mi accolse Tonino Tatò, l'assistente, l'angelo custode, il suor Pasqualino di re Enrico, sempre all'erta. Era l'opposto del principale: un incrocio tra il centurione e il barbiere di lusso, aitante e sboccato. Mi accolse a muso duro: «Hai scritto sul partito delle formidabili stronzate! Chi te le ha raccontate tutte 'ste balle su Enrico che ho letto nella tua inchiesta sul Pci?». Cominciò a scorrere le mie domande alla velocità del suono. Poi emise il primo giudizio: «Cazzo!». Non gli piaceva la domanda su Dubcek, il leader cecoslovacco messo a terra dai carri armati sovietici nel 1968: «Lascia perdere Dubcek, porta jella!». E meno che mai quella sulla Nato: «Che c'entra la Nato con l'obbligo di sconfiggere 'sti cazzo di democristiani?». Invece Berlinguer rispose a tutte le mie domande, e a proposito della Nato disse di sentirsi più sicuro in Occidente che sotto il Patto di Varsavia. Mi diede un'intervista coraggiosa, anche se conosceva più di tutti il peso dell'Unione sovietica. Infatti il testo del nostro colloquio (cinque ore di lavoro, compreso il lungo controllo della prima stesura, e le tantissime Turmac fumate dal segretario) venne subito inviato all'ambasciata sovietica di Roma. Nella persona di Enrico Smirnov, il primo segretario, un funzionario intelligente che parlava alla perfezione l'italiano. Che cosa accadde dopo quel secondo controllo, lo compresi quando l'intervista apparve la stessa mattina sul Corriere e l'Unità. Nel testo pubblicato dal quotidiano comunista erano scomparse tutte le domande e le risposte sulla Nato, proprio quelle che stavano provocando un dibattito alla grande sul «Nato-comunismo» di Berlinguer. Allora telefonai al direttore dell'Unità, Luca Pavolini, e gli chiesi conto della censura. Replicò con una risata: «Pensi davvero che un povero direttore possa censurare il segretario generale del Pci?». Compresi che domande e risposte erano state sbianchettate per ordine di re Enrico e su richiesta dell'ambasciata dell'Urss. Certe eresie non potevano apparire sul giornale ufficiale del partito, una specie di Vangelo intoccabile. Rispetto all'Urss, anche Berlinguer poteva godere appena di una sovranità limitata. Persino quando azzardò il famoso strappo, dichiarando che la forza propulsiva del comunismo sovietico si era esaurita, non gli fu possibile mutare campo per incontrarsi con i socialdemocratici europei. Del resto aveva ingaggiato una guerra all'ultimo sangue con il leader dei socialisti italiani, Bettino Craxi. Il nemico vero del Pci non era la Dc, ma il segretario del Psi. Ed è una favola che li dividesse la questione morale. Anche il Pci si finanziava con le tangenti, poiché i generosi contributi di Mosca non bastavano mai. Craxi era considerato un nemico perché insidiava la forza politica dei comunisti. In una nota riservata del 1978, scritta da Tatò per Berlinguer, veniva dipinto così: «Un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia». Nel 1984, quando Craxi diventò presidente del Consiglio e presentò un decreto legge sulla scala mobile, diretto a far calare l'inflazione, con una riduzione molto modesta dei salari, contro il leader del Psi Berlinguer scatenò una guerra senza quartiere. Il segretario del Pci, di solito molto misurato nel parlare, arrivò a dire: «L'ostinazione di Craxi nel tenere in piedi quel decreto rasenta i limiti di un atto osceno in luogo pubblico». E il 20 febbraio di quell'anno, quattro mesi prima di morire, sparò una raffica di accuse contro il segretario socialista: non tollera il Parlamento, pratica metodi autoritari, il suo decreto è un attentato a una delle libertà irrinunciabili della democrazia repubblicana. Morale: Craxi cerca una crisi politico istituzionale che può essere di proporzioni impensabili. Più di una volta ho visto Berlinguer scherzare col fuoco. Era accaduto anche nell'ottobre 1980, quando la Triplice sindacale decise di bloccare la Fiat Mirafiori. Il segretario del Pci non era per niente d'accordo con il blocco: lo considerava una battaglia perduta. E non aveva nessuna voglia di muoversi dalle Botteghe oscure per correre a Torino. Poi si convinse che non andarci avrebbe leso la sua immagine di capo supremo della sinistra. Si presentò al cancello 5 di Mirafiori, avendo a fianco l'inseparabile Tatò, più che mai aitante, e uno scheletrico Piero Fassino, che allora era il funzionario del Pci torinese incaricato di seguire le fabbriche. E regalò ai blocchisti qualche parola che a molti cronisti, me compreso, sembrarono davvero incaute: «Se si arriverà all'occupazione della Fiat, dovremo organizzare un grande movimento di solidarietà in tutta l'Italia. Esistono esperienze di un passato non più vicino, ma che il Pci non ha dimenticato. Noi metteremo al servizio della classe operaia il nostro impegno politico, organizzativo e di idee». La promessa ebbe un seguito che mi venne raccontato dal leader della Cgil, Luciano Lama. Lui non voleva l'occupazione della Fiat e chiese a Berlinguer: «Credi di aver fatto bene ad andare al cancello di Mirafiori?». Con una smorfia di fastidio, re Enrico rispose: «In questo momento bisogna spendere tutto e dare ai lavoratori la prova che noi siamo con loro. E poi guarda che io non ho detto che loro dovevano occupare la Fiat. Ho soltanto sostenuto che, se l'avessero fatto, il Pci sarebbe stato con gli operai». Però Lama era un romagnolo e non accettava di essere preso in giro dal segretario del suo partito. Gli replicò: «Caro Berlinguer, la differenza c'è. Ma per chi ti ha ascoltato quel giorno davanti alla Fiat non è poi così grande». Berlinguer non aprì bocca. E offrì a Lama soltanto il proprio aspetto: una figura smilza, da adolescente che non ha mai giocato a pallone, le spallucce un tantino incassate, la schiena già curva, un viso più vecchio dei suoi 58 anni, un pallore grigio da fatica, occhiaie, rughe, una barba da fine giornata pressoché bianca, il solito vestito un po' informe, la cravatta rossiccia annodata alla meglio. Se fosse ancora in vita, oggi Berlinguer avrebbe 92 anni. A Matteo Renzi non servirebbe rottamarlo. Del resto, i giovani di oggi non sanno più chi sia questo politico sardo che si è trovato al centro di mille tempeste. Per fortuna, esistono ancora i vecchi cronisti, come il sottoscritto. Veltroni dovrebbe ringraziarci uno per uno poiché diamo un senso alla sua nuova vita da regista di documentari. di Giampaolo Pansa

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