Milano, il dibattito chic è sulla battaglia femminista per l'urbanistica di genere
Ci si doveva liberare di machismo e patriarcato. E forse ci si è riusciti, chissà. Nel mentre, però, s’è imbarcato un femminismo strano, a tratti bacchettone, persino parruccone. Un femminismo quasi quasi più pedante d’un vecchio maschio. Ed ecco. Sulle pagine milanesi di Repubblica, ieri, è comparso un titolo che è già letteratura: «Molte vittime sono donne di violenza – scrive Rep – Serve l’urbanistica di genere per ripensare le città». A parlare è l’urbanista Florencia Andreola, nata a Buenos Aires, con base a Milano, presidente oggi di Sex & the City – associazione di “urbanistica di genere” detta anche “urbanistica femminista” – che verga l’home page del sito con asterischi e schwa. Sex & the City– il nome è mutuato dalla serie cult HBO, amata da proto-woke newyorkesi e casalinghe bollenti – promulga progetti “teorici e pratici” volti a ripensare la città a misura di donna.
Affinché, per esempio, si restituiscano spazi alle persone “fragili” (donne) “togliendoli alle auto” (guidate perlopiù dagli uomini). Il tema, per la verità, sarebbe anche serio visto che Florencia Andreola accenna nell’intervista a barriere architettoniche, a marciapiedi sconnessi e senza rampe, a spazi disagevoli per i passeggini e ad altri problemi che in effetti ostacolano la mobilità delle ragazze con i bambini appresso. Il tema ci starebbe tutto non fosse che non è, appunto, un problema di tema. Ma di tono. E cioè, anzitutto, di postura anti maschio e paradossalmente anti donna. Leggendo l’intervista si scopre infatti che il maschio guida, rispetto alla femmina, troppo di più l’automobile. E che, trascorrendo più tempo al volante, è giocoforza causa di sinistri più frequentemente della donna. La quale invece, guidando meno e passeggiando di più (anche a causa d’una maggiore povertà del sesso femminile, dice l’urbanista), sarebbe più a rischio incidenti (ma va).
Ed ecco. Secondo Andreola, non ci sarebbe a questo punto da interrogarsi sul perché la donna guidi meno, sul perché le donne comprino meno auto, sul perché con più fatica dell’uomo prendano la patente (supponiamo per una mancanza di fiducia e di soldi). Non occorrerebbe andare a monte e dunque auspicare più soldi e patenti per tutti (ops, per tutte e tutti). Piuttosto quel che occorre chiedersi, dice, è se non sia il caso mettere fuori gioco le patenti degli altri. E cioè dei maschi. E dunque non sia il caso d’impoverire l’uomo del suo motore, senza per questo arricchire la donna d’indipendenza. Ora. Spazi a misura di “fragili” (qualunque cosa ciò significhi) son certo segno d’avanguardia. Non foss’altro perché la fragilità - o più precisamente la vecchiaia, la malattia (le cose hanno un loro nome) - è in agguato un po’ per tutti, anche per gli uomini (e «l’uomo intero è tutto una malattia», Joseph De Maistre). Scalini e pendenze non sono tanto barriere quanto barbarie. Anche per noi fragili che trasportiamo valigie in stazione.
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Il tema è serio e dunque non si capisce, a maggior ragione, perché svilirlo con la guerra dei sessi. Con quel femminismo parruccone che anziché auspicare meno barriere, sì, ma anche più indipendenza (e cioè più motori per tutti), auspica meno auto. E meno maschi. Ascrive le donne ai fragili fa la conta degli incidenti e dimentica che il grado di una civiltà si misura semmai nel benessere. Tradotto, significa più auto per lui e per lei. Più gioia e più rumore, per lui e per lei. In sintesi, meno parrucche e meno barriere ma certo più auto e più minigonne.