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Niente inglese al Politecnico: "No, è l'omicidio di massa dei laureati italiani"

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Nicoletta Orlandi Posti
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I docenti del Politecnico di Milano che hanno fatto ricorso al Tar contro le lezioni in inglese e i giudici che hanno dato loro ragione si candidano a raccogliere l'eredità morale del comitato centrale del Pci dei tardi anni '70 che dichiarò la lotta dura contro l'introduzione della tv a colori o dei gruppi di genitori allarmati che, una ventina d'anni fa, lanciarono la crociata contro il topless in copertina. Tutta gente mossa da una granitica convinzione: io ho ragione, la Storia ha torto e per questo io ho il diritto e il dovere di cercare di fermarla a mani nude, la Storia. Per rendersi conto di quanto sia antistorica la cosa, d'altronde, basta sottolineare come decisivo per rendere possibile il ricorso e il suo accoglimento sia stato il rinvenimento di un cavillo contenuto in un regio decreto del 1933 (XI E.F.) che prescriveva l'italiano come lingua obbligatoria dell'insegnamento universitario. Così, in forza di una legge partorita quando l'unico rapporto con l'inglese consentito agli studenti era l'invocazione della stramaledizione celeste sugli albionici per tre generazioni, oggi si pretende di fare finta che nel frattempo l'inglese non sia diventato la lingua franca planetaria. Che questo gioco delle tre scimmiette lo faccia poi il Politecnico, cioè un'università all'avanguardia quanto a formazione in campo scientifico e tecnologico, non fa che aumentare la gravità della cosa. Uno studente di filologia micenea o di lineamenti di storia monastica della lingua di Shakespeare può fare agevolmente a meno, ma uno studente di ingegneria o di informatica no. Il settore della scienza e della tecnologia, infatti, è da qualche decennio che - senza attendere il timbro del Tar - è diventato integralmente anglofono. Questo al punto che, nelle offerte di lavoro, la conoscenza della lingua inglese non viene nemmeno richiesta, tanto è data per scontata. I famosi Paesi emergenti - quelli che sfornano ingegneri al ritmo in cui qui si producono fuoricorso in Scienze della comunicazione - tirano su i propri figli a pane e inglese fin dalla più tenera età, proprio perché sanno che la competitività sul mercato del lavoro oggi più che mai passa attraverso il bilinguismo. Qui invece si pretende che tutto questo non accada. In nome della solita, straccionissima, difesa di una non meglio chiarita italianità si performano capolavori di sciovinismo (come quello messo a segno dal ticket professori-Tar) che farebbero impallidire persino i francesi. E mentre aspettiamo che certe teste entrino finalmente nel ventunesimo secolo, gli studenti continuano a pagare in prima ed esclusiva persona il frutto di tanta miopia, frequentando un'università che, semplicemente, si rifiuta di formarli come si dovrebbe. Di consolante c'è che i ragazzi, al solito, si dimostrano più avanti della controparte adulta e l'inglese - sempre siano lodati Internet e tecnologia - ormai hanno iniziato a impararselo da sé. Sperando che non se ne accorga il Tar. di Marco Gorra

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