Tutti gli errori nei soccorsi: "Moro" è morto così
Barella sbagliata, defibrillatore non usato, niente adrenalina. Il giallo sul malore di Morosini a Pescara. L'esperto: "Procedure incomprensibili"
In sei, forse sette minuti, si è consumata la tragedia di Piermario Morosini. Ma in quegli interminabili momenti, mentre il 25enne del Livorno era steso a terra, intorno la fretta e la confusione impazzavano, forse giocando un ruolo decisivo. Perché adesso la sensazione che qualcosa di anormale nei soccorsi ci sia stato non è soltanto un brutto pensiero da scacciare in fretta. Si poteva fare di più? Di certo si poteva fare meglio. Lo conferma Mirco Jurinovich, da oltre venti anni in servizio sulle ambulanze come soccorritore e fondatore del Comitato “Sessantamilavitedasalvare”, che si batte per la liberalizzazione dell'uso dei defibrillatori nei luoghi pubblici in Italia. «Noi chiamiamo questi arresti cardiaci “cecchini invisibili” - spiega Jurinovich -forse è stato questo a uccidere Morosini. Anche i soccorsi mi hanno lasciato molto perplesso». Si può parlare allora di negligenza? «Più che altro anomalie. Premetto che valuto il tutto attraverso immagini tv e non voglio incolpare nessuno, solo far sì che se ci sono stati degli errori si lavori per non ripeterli. Ma mi sono visto e rivisto i filmati su internet e credo che si poteva fare qualcosa di diverso». Anche salvare il ragazzo? «La letteratura medica e le esperienze di altri Paesi ci dicono che, in caso di arresto cardiaco, moltissime vite potrebbero essere salvate intervenendo entro 5 minuti con un defibrillatore semi-automatico. Ecco, io non ho visto traccia dell'utilizzo del defibrillatore». Eppure sembra che ce ne fossero due pronti a entrare in azione. Secondo il dottor Leonardo Paloscia, sceso dalle tribune, «il defibrillatore era sull'ambulanza, ma non l'abbiamo usato. Non potevano usarlo perché avremmo dovuto fare prima una diagnosi di fibrillazione ventricolare... ». «Che non sembra stata fatta: da nessuna parte si vede il monitor per effettuare l'esame - ribatte Jurinovich -. Ma andiamo per ordine. Primo, in queste situazioni bisogna scoprire il torace del paziente, sia per poter applicare gli elettrodi, sia per poter praticare il massaggio cardiaco nel punto giusto, altrimenti è inutile». E almeno finché non è stato caricato in ambulanza il Moro aveva perfettamente indosso la maglia. «Esatto. Poi il giocatore non viene intubato prima del trasporto e il presidio utilizzato per la ventilazione, il pallone di ambu, non è collegato alla bombola dell'ossigeno. In più c'è la testimonianza di Marco Di Francesco della Misericordia di Pescara. Dice di aver introdotto la cannula e aver iniziato la ventilazione, poi Piermario l'avrebbe risputata: a quel punto è stato ritenuto cosciente e quindi il defibrillatore non sarebbe stato usato per scelta. Invece poteva trattarsi di gasping, respiro agonico, un'auto-rianimazione presente nei momenti successivi all'arresto, quando però la ventilazione è del tutto inefficace. E quindi ci voleva il defibrillatore. Ora, in questi apparecchi è presente una memoria interna che registra l'utilizzo, gli orari e il tracciato cardiaco della vittima: penso che il magistrato vorrà acquisire gli eventuali dati». In questi casi spesso vengono effettuate iniezioni di farmaci stimolanti, che permettano al cuore di tornare a battere. In ospedale hanno usato 11 fiale di adrenalina, in campo invece non si è vista nessuna siringa. «Ed è strano. Nessuno accenna a cercare una vena per praticare un'iniezione. Di solito è una delle prime cose da fare. E in più c'è la questione ambulanza, che non è soltanto il ritardo dovuto all'auto dei vigili. «Per quanto scandaloso non credo sia stato decisivo, c'è altro. Nella fretta di portare il Moro in ospedale, la prima barella che viene portata è sbagliata, non entrava nell'ambulanza del 118 perché è probabilmente quella del mezzo della Croce Rossa anch'esso presente allo stadio. Quindi le difficoltose operazioni di carico durano circa un minuto, durante il quale nessuno fa manovre di rianimazione sul giocatore. Per ogni minuto trascorso dopo un infarto se ne vanno il 10% delle chance di sopravvivenza, e dopo 5 minuti insorgono i danni cerebrali. E lì eravamo esattamente nel quinto minuto, quando si stavano giocando le residue possibilità di sopravvivenza. A meno che l'autopsia non ci dica altre verità». di Tommaso Lorenzini