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Pansa: "Bossi uccide la Lega, serve un nuovo leader"

I lumbàrd stanno sbagliando tutto: hanno bisogno di una guida ma perdono tempo. E restano in balìa del Senatùr

Giulio Bucchi
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I vecchi direttori raccomandavano ai giovani cronisti: non azzardatevi a fare previsioni, i giornali sono nati per raccontare quanto è già avvenuto, mai per immaginare il futuro. Tuttavia, a volte è inevitabile trasgredire la regola. Succede quando un fatto costringe a dare un'occhiata alle conseguenze che avrà. Uno di questi è la crisi terribile che ha travolto Umberto Bossi. Siamo di fronte a una catastrofe politica che rende obbligatoria una domanda: quali saranno gli effetti sull'esistenza della Lega? Per rispondere, bisogna tenere presenti tre numeri. Indicano i voti conquistati dal partito di Bossi nelle ultime consultazioni elettorali. Alle politiche del 2008 il successo della Lega era stato travolgente. Aveva quasi raddoppiato il bottino del 2006, passando dal 4,5 per cento all'8,2 per cento. Nel 2009, elezioni europee, la Lega fece un altro passo in avanti, superando il 10 per cento. Nel 2010, elezioni regionali, il partito di Bossi sorprese tutti, toccando il suo massimo storico: 12,28 per cento, su scala nazionale. E arrivò a governare due regioni chiave del Nord: il Piemonte e il Veneto. Perché il leghismo bossista cresceva con questi ritmi, anche in territori come l'Emilia Romagna che sembravano fortezze rosse inespugnabili? Le spiegazioni offerte dai politologi e dagli esperti di flussi elettorali furono molte. Ma una prevaleva su tutte. E aveva a che fare con la crisi del sistema partitico, già evidente anche se ancora lontana dalle proporzioni drammatiche di oggi. La Lega conquistava di continuo nuovi elettori perché era ritenuto un partito diverso. Non lottizzava in modo sfacciato, non rubava, non incassava tangenti, presentava un gruppo dirigente dove le facce nuove erano molte, si proponeva come un Alberto da Giussano in grado di difendere gli interessi degli italiani operosi e faticoni del Nord contro gli sperperi del resto d'Italia, identificato nello slogan di Roma ladrona. Se questa diagnosi è fondata, e credo lo sia, diventa fatale un interrogativo: quanti degli elettori che hanno reso grande la Lega continueranno a votare per Bossi & C? La risposta altrettanto fatale è che molti di loro faranno una scelta diversa. Non daranno certo il voto ai fantasmi degli altri partiti, ma è probabile che si rifugino nell'astensione. Saranno spinti a farlo dalla robaccia che sta emergendo grazie alle inchieste giudiziarie. Certo, le indagini sono ancora lontane dal concludersi. Ma mostrano che la Lega è identica ad altre parrocchie. Pure all'ombra di Alberto da Giussano si è rubato, si è trafficato, si sono maneggiati fondi neri. Sullo sfondo strabiliante di un clan familiare-politico, il Cerchio magico, vorace e pronto a tutto. Per non parlare dei casi di malaffare scoperti nella Lega tra il 2011 e l'anno in corso. Questo crac d'immagine ha già avuto una sanzione che nessuno prevedeva: le dimissioni del Senatur da leader assoluto della Lega. L'Umberto è in pista da ventotto anni, ossia dal 12 aprile 1984. Quel giorno, davanti al notaio varesino Franca Bellorini, Bossi costituì la Lega Lombarda. Accanto a lui altri sei soci fondatori. Uno di loro, ecco un dettaglio da ricordare, era la futura moglie Manuela Marrone. Adesso, dopo quasi un trentennio di successi, la Lega sta sul ciglio del baratro. Che cosa deve fare per sopravvivere? La mia risposta è una sola: deve fare tutto il contrario di quanto sta facendo. Il primo errore è di rimandare a ottobre la scelta di un leader in grado di prendere il posto di Bossi. Tutti sanno che il candidato è uno solo: Roberto Maroni. Nessuno può dire se sarà in grado di sostituire l'Umberto. Ma per capirlo bisogna metterlo in condizione di guidare il partito. Questa limpida via d'uscita sta incontrando molti ostacoli. Bossi si è ben guardato dall'indicare Maroni come il suo delfino. Anzi, sotto la tempesta giudiziaria che lo investiva insieme al Cerchio magico, nei primi borbottii registrati dalle telecamere lo ha giudicato con sufficienza. Come un dirigente di seconda fila, che finora ha saputo soltanto creare una corrente, «quella dei Barbari sognanti». Lo stesso Bossi, dopo una serata di sicuro rovente trascorsa in famiglia, ha iniziato a comportarsi come fanno di solito i politici travolti da un'inchiesta. È un complotto di Roma ladrona, che ci ha mandato addosso dei giudici farabutti, la magistratura è la spada dei nostri nemici che vogliono tagliarci la testa. Non pensavo che il capo leghista fosse tanto ingenuo da arroccarsi dietro questa fragile linea di difesa: un paravento di carta velina che può rassicurare soltanto i militanti più ciechi. Anche la nomina dei tre reggenti (Calderoli, Dal Lago, Maroni) è soltanto un espediente per rinviare la nomina del nuovo segretario federale. E' proprio questo il sintomo più grave della crisi che rischia di schiantare la Lega. La casa sta bruciando, ma invece di affidare il comando a chi dovrà tentare di spegnerlo, Maroni o un altro dirigente, si sceglie di non muovere un dito.  E' una strategia che conduce soltanto al disastro. Nessun partito sopravvive senza un leader. Tutto si ferma. Il clima interno si fa irrespirabile. Le fazioni si scannano. L'ombra del capo diventa un sudario per l'intero partito. Anche le decisioni indispensabili non vengono adottate, dal momento che non esiste un'autorità in grado di prenderle e di spiegarle ai militanti. Volete un esempio? Si sente parlare di due espulsioni inevitabili. La prima è quella del segretario amministrativo della Lega, l'ormai famoso Francesco Belsito. Responsabile, come minimo, di pasticci memorabili e già privato dell'incarico. L'altra riguarda Rosi Mauro, vice presidente leghista del Senato, che si è comprata in Svizzera una laurea per se stessa e per il proprio moroso, così sostengono le indagini. Con quali soldi? Con i soldi nostri, dei contribuenti onesti. Una vergogna inaccettabile che nessuno potrà perdonarle. Tuttavia, chi può decidere queste espulsioni? Anche la struttura burocratica della Lega è in pieno marasma. Stiamo assistendo a un film horror, dove un partito si sta uccidendo in diretta tivù, giorno dopo giorno, su un patibolo eretto da una parte dei suoi dirigenti. Con un contorno di comparse da fumetto che rammentano il vecchio cabaret del Bagaglino: mogli, figli, amanti, auto di lusso, lauree finte, trafficoni insaziabili, ras che si fanno la forca, militanti che piangono e, forse, elettori in fuga. Al centro di queste rovine campeggia la figura di Bossi. Più tragica che grottesca. Siamo di fronte a un leader che ha tradito se stesso, avallando tutte le porcherie dei famigli. Un uomo malato, debole, prigioniero di un clan capace di ingabbiarlo. Restio a cedere il potere. Per un motivo che non va deriso: niente potere significa niente politica. Ma la lotta politica è stato lo scopo esistenziale del Senatur. Rinunciarvi può vuol dire morire. E a volte penso che il vecchio capo leghista sia già defunto. Bossi non è sciocco. Sa bene che ci sono diversi modi di tirare le cuoia. Un leader vivo, ma impotente, è di fatto estinto. Questa sembra la sorte del Senatur. Il suo partito ha avuto tutto da lui. Adesso la Lega ha un unico modo per ripagarne la dedizione: voltare pagina e decidere chi prenderà il suo posto. Si sbrighi a farlo. In caso contrario chiuderà i battenti. E tutti, dal vertice all'ultimo dei militanti, dovranno andarsene a casa. di Giampaolo Pansa

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