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Paragone: Addio asse padano, Maroni chiude l'era Tremonti

La Lega ha perso negli ultimi anni il legame con il popolo delle fabbrichette lombardo-venete. E con Bobo la situazione non migliorerà

Giulio Bucchi
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Mentre tutti gli occhi sono puntati sulle novità dell'inchiesta che riguarda il tesoriere della Lega e i presunti benefici a favore del cerchio magico, si corre il rischio di sottrarre l'attenzione al tema politico della vera crisi della Lega, che è una crisi politica. Mi riferisco al suo ruolo di collettore – svolto con l'allora Forza Italia – delle istanze avanzate dalle migliaia e migliaia di fabbrichette ammucchiate nel lombardo-veneto. Il popolo dei capannoni. E' nella perdita di consenso in questo mondo che secondo me va cercato il punto debole dell'ultima Lega. Ma chi rappresentava questa Lega? Essenzialmente tre persone: Umberto Bossi, Roberto Calderoli e… Giulio Tremonti. Bossi in quanto leader storico e naturale del Carroccio, Tremonti in quanto ministro dell'Economia e amico dei lumbard, Calderoli in quanto estensore dei vari federalismi in salsa padana. A questi ultimi due, a dirla tutta, andrebbe riconosciuto il titolo di re dei pasticcioni. Abbandonata la secessione, la bandiera federalista è stata prima sventolata sotto forma di devolution (un sostanziale trasferimento di competenze legislative dallo Stato centrale alle Regioni), poi di federalismo fiscale. La devoluzione viene inserita in un pacchetto di riforme costituzionale più ampio bocciato dai cittadini quando Berlusconi era appena stato sconfitto alle elezioni politiche (se uno viene bocciato in cabina elettorale mi sembra difficile poche settimane dopo far trionfare un progetto di quell'esecutivo…): sarebbe bastato che l'allora governo accelerasse con quelle riforme per farle votare nella fase centrale della legislatura. Siccome però in politica il detto “il tempo è denaro” non vale (i denari arrivano a pioggia lo stesso, sai che gliene frega loro?), i doppi passaggi richiesti dall'articolo 138 si trascinarono allo scadere della legislatura con le conseguenze sopra raccontate. Col senno di poi, sarebbe stato più opportuno dare un'aggiustatina alla riforma del titolo V fatta obtorto collo dalla sinistra e oggi avremmo un assetto federale più spinto. Accantonata la devoluzione, la Lega ci riprova con il federalismo fiscale. Nemmeno il tempo di partire che già l'accoppiata Calderoli-Tremonti la fa sporca: anziché lavorare sull'idea del programma elettorale (avere il modello di statuto della Regione Lombardia come punto di riferimento e da lì tarare tutte le altre regioni) i due hanno cominciato a fare e disfare la tela federalista. Grandi dichiarazioni d'intenti, poi al momento dei conti un numero non s'accoppiava con quell'altro (ricordo che proprio sulle colonne di Libero definimmo il federalismo fiscale una minestrina riscaldata). Perché? Semplice, perché la coperta sarà sempre corta fintanto che lo Stato non taglia drasticamente la spesa pubblica. Per gettare un po' di fumo negli occhi, Calderoli organizzò il gran falò delle leggi inutili. A conti fatti il risparmio fu ben poca cosa: il denaro pubblico sprecato resta oceanico. Tremonti e Calderoli, cioè coloro che avrebbero dovuto tradurre e soddisfare le esigenze dei piccoli imprenditori (meno burocrazia, meno centralismo, meno tasse eccetera eccetera), rischiano di passare alla storia come Mimì e Cocò delle riforme svanite. (Oddio, sono in buona compagnia perché sul fronte della pubblica amministrazione non mi sembra che Brunetta abbia sciolto i nodi più grossi.) Le imprese artigiane e tutto quel mondo della micro e piccola impresa è vittima di un sistema statale che il centrodestra aveva promesso di modificare e che invece ha reso ancor più bloccato e ingessato. Tremonti più di Calderoli (non fosse altro perché l'uomo della finanza creativa aveva i cordoni della borsa) s'atteggiava a Richelieu e vendeva sempre ricette miracolistiche per guarire l'Italia. Non per nulla alla fine della giostra ha finito con lo scrivere un… ricettario. Inutile. Torno così a bomba. L'alleanza tra Bossi e Tremonti – alleanza che doveva servire per godere di corsie privilegiate in tema di federalismo – è stata devastante per la Lega perché i problemi degli anni Novanta sono immutati vent'anni dopo. Su Tremonti si sono abbattuti gli strali degli imprenditori e dei sindaci, soprattutto di quelli col fazzoletto verde, che ricordano ancora le litigate sul patto di stabilità e sui tagli progressivi agli enti locali: Giulietto con la destra scriveva il federalismo fiscale e con la sinistra firmava robe da sceriffo di Nottingham. Tremonti, con le dimissioni di Bossi, perde l'unica sponda politica su cui poggiava; difficile che Maroni – il quale proprio coi sindaci sta costruendo la nuova Lega – lo possa legittimare come avevano fatto Bossi e soprattutto Calderoli. Nulla di personale, sia chiaro, la questione è solo politica. La Lega – se l'analisi che ho scritto finora ha un senso – deve ripartire da tre fattori: la trasparenza, il rapporto col territorio (che nel nord significa tessuto economico e sociale), la concretezza (punto che l'ex ministro dell'Interno ha conquistato sul campo e non solo tra l'elettorato leghista). Le inchieste renderanno il cammino difficile, per questo un ricambio di classe dirigente e un ritorno alle origini non potranno che fare bene. Certo, sarà più difficile perché la verginità è stata intaccata; dunque solo se il Carroccio saprà riconquistare la fiducia dei ceti produttivi, in un momento di grande crisi, potrà essere sicura di essere la forza del nord. di Gianluigi Paragone

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