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Lavoro, la rivolta nel Pdl: Alfano ora deve rimediare

La riforma non va giù agli azzurri. Sacconi: "Bisogna stralciare tutto". Il segretario: "Modifiche, altrimenti non passa"

Giulio Bucchi
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La Cgil esulta, il Pdl, invece, è in rivolta. Il nuovo testo della riforma del lavoro varato dal governo Monti è un boccone amaro da digerire per il partito del Cav, che infatti annuncia modifiche in Aula. Prima al Senato, dove da martedì inizia la discussione in Commissione lavoro, poi alla Camera. Il più drastico è l'ex ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che  appena presa visione degli ultimi ritocchi seguiti al vertice di maggioranza, giudica il ddl Fornero «una controriforma che preoccupa le imprese». Per Sacconi bisogna «stralciare tutto e lasciare solo la riforma degli ammortizzatori sociali», perché il nuovo testo prevede maggiori «adempimenti, sanzioni e costo del lavoro» e una normativa sui licenziamenti «più incerta e farraginosa di quella tedesca». Gli fa eco Fabrizio Cicchitto: «Riproporremo in Aula le norme sulla flessibilità non accolte nel ddl». Il presidente dei deputati pidiellini non nasconde che sull'argomento ci sia stato un «sofferto compromesso che, pur mantenendo la facoltà del licenziamento per motivi economici, tuttavia ne complica il percorso. A questo punto», aggiunge, «visto che la logica originaria del provvedimento ha subìto alcune manipolazioni, al centro della nostra preoccupazione sono le modalità regolative della flessibilità in entrata». Tradotto: il testo deve cambiare. È vero che l'esecutivo ha accolto alcune delle richieste di via dell'Umiltà (contratti di collaborazione, apprendistato, part-time e articolo 13 della legge Biagi), ma altre non sono passate, fra l'altro alla vigilia delle elezioni amministrative. Di «pesanti concessioni del governo ai sindacati, in particolare alla Cgil», parla pure Nino Foti, capogruppo Pdl in Commissione Lavoro alla Camera. «Nonostante alcuni recuperi in corsa, dovuti all'intervento del nostro segretario Alfano, il saldo complessivo della riforma è negativo, con il rischio di più rigidità e meno assunzioni per i giovani». In serata è lo stesso Alfano ad annunciare che il testo così non passa: «Al Senato opereremo per modifiche e miglioramenti che possano garantire nuova occupazione e che vadano incontro alle preoccupazioni manifestate dalle imprese». Il segretario del Pdl lo dice chiaro: nessuna intenzione di staccare la spina all'esecutivo dei prof, ma «occorre una strategia di crescita e di espansione, per evitare che si inneschi e si consolidi una spirale recessiva». A preoccupare non è solo sul lavoro, ma anche il fronte fiscale, «con la pressione tributaria sulle famiglie ormai insostenibile. Per questo conto di illustrare a Monti tre punti per noi fondamentali: rateizzazione e transitorietà dell'Imu, no all'aumento dell'Iva, piano di abbattimento del debito pubblico». Quindi, sostegno ai tecnici, ma cambio di passo. L'azione parlamentare», conclude Alfano, «sarà orientata in questo senso». Chi canta vittoria, per una volta, è il Pd di Pier Luigi Bersani. Sull'articolo 18  pare che il segretario dei democratici si sia molto speso. Da Renzi a Fassino è tutto un elogio per il compagno romagnolo. Cesare Damiano replica ad Alfano: «Non torniamo alla casella di partenza. Non siamo al gioco dell'oca».  Fini plaude a Monti con cui «l'Italia recupera autorevolezza nell'Ue». Per il capo dell'Udc, Casini, «l'importante è che la riforma del lavoro sia approvata e diventi regola dello Stato entro l'estate. Cambia poco», afferma il centrista, «se un ramo del Parlamento la approva o meno prima delle Amministrative». di Brunella Bolloli

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