Afghanistan, italiani feriti Numeri sono censurati
La spiegazione ufficiale: "è per non allarmare le famiglie". Ma si vuole anche nascondere l'offensiva talebana
Camp Arena, la base militare di Herat dove opera il grosso del contingente italiano in Afghanistan, potrebbe tranquillamente essere il set di un film di guerra, molto simile ad «Apocalypse Now»: C130 e caccia Amx che arrivano e decollano, i Mangusta sempre pronti a supportare le truppe al suolo. E poi gli elicotteri da trasporto usati come bus, visto che le strade sono impraticabili e sempre più pericolose, coprifuoco dopo il tramonto con le luci accese solo nei locali, in modo da non essere un bersaglio facile. A Camp Arena, come in tutte le altre postazioni avanzate, l'illuminazione pubblica è stata eliminata. Nelle basi, la sera, sembra il valzer delle lucciole. Un tocco di poesia in un contesto drammaticamente reale. Insomma, un'operazione di pace in un contesto di guerra che i nostri militari stanno cercando di gestire al meglio. E il meglio non è mai abbastanza, in una terra dove lo Stato è un concetto astratto, al punto che le forze della coalizione stanno insegnando agli afghani, fra le altre cose, anche cosa vuol dire amministrare. E laddove i talebani cercano di fermare questa avanzata, parlano le armi, alle quali le forze della coalizione rispondono con lo stesso linguaggio, ma con maggior intensità. Come hanno sperimentato i cinque soldati italiani rimasti coinvolti nella battaglia di «Fob Ice», la postazione avanzata del Gulistan, costata la vita al sergente Michele Silvestri. Il ministro - I meno gravi, due bersaglieri della brigata Garibaldi, sono ripartiti ieri da Herat, destinazione l'ospedale militare del Celio a Roma, dove sono ricoverati gli altri due militari che versano in condizioni ancora critiche. Prima di salire sull'aereo hanno incontrato il capo di stato maggiore della Difesa, Biagio Abrate, e il ministro Giampaolo Di Paola, di ritorno dall'India, arrivati ad Herat per il cambio di contingente. «Li ho trovati col morale solido, e naturalmente le condizioni fisiche, oltre che morali, sono buone», dice il ministro, lodando «l'importante impegno» di tutti i soldati in missione nel Paese. Di Paola parla con una certa emozione, avendo ancora negli occhi, e nel cuore, le immagini dei nostri marò, prigionieri in India. E non sai, a quel punto, chi siano i veri soggetti del ragionamento del ministro della Difesa, visto che Di Paola parla a ruota libera, sulla pista dell'aeroporto di Herat. Forse di tutti insieme, entrambi feriti, qualche modo. Dei marò, comunque, dice che «stanno bene» e di «sperare bene». È che qui, in Afghanistan, i feriti sono tanti, al punto che la contabilità viene costantemente aggiornata, ma mai resa pubblica. Un modo per non mettere ansia alle famiglie in Italia, dicono gli uomini in grigioverde. Un modo per non far capire quanto sia diventato elevato il rischio, sussurrano altri. Meno dubbi, invece, quando il ministro della Difesa parla dei soldati caduti, rifacendosi alle parole del titolare della Farnesina, Giulio Terzi che ha paragonato i soldati morti in Afghanistan alle vittime del terrorismo. «Credo che si debba portare rispetto per tutti i morti, soprattutto per quelli che sono morti per servire il Paese». Nessuna catalogazione dunque, solo rispetto. Lo stesso che invoca il capo di Stato Maggiore, Biagio Abrate. «Non voglio catalogare vittime di un tipo o di un altro. Stiamo assolvendo a una missione internazionale per la salvaguardia di questo popolo». Abbandono - Un popolo che sarebbe afflitto dalla sindrome dell'abbandono, dato che nel 2014 dovrebbe essere completata la transazione, ovvero il ritiro. Forse, anche se da sola non basta, questa è una delle risposte al perché siamo qui. di Enrico Paoli