Sulla riforma del lavoro, Monti e il governo rischiano il posto
Mentre politici facevano le foto, l'esecutivo ha caricato ancora di tasse le pmi. Ma ora il Pdl non può più restare a guardare
Scattano pure le foto, poi le commentano (in ottima compagnia). Fanno i convegni, rilasciano dichiarazioni spesso opposte a ciò che votano o approvano (vedi Bersani sull'articolo 18, ma anche mezzo Pdl sulla riforma del lavoro). Finché i partiti che costituiscono la «strana» maggioranza che sostiene Mario Monti non si rendono conto dell'impatto reale dei provvedimenti dell'esecutivo, il Professore ha motivi di non perdere un solo grado nell'angolazione del suo britannico sorriso. Dovesse cambiare la situazione, il suo diventerebbe uno dei posti più a rischio, tale da mettere a repentaglio, se non la legislatura, almeno un cammino tranquillo verso il 2013. La situazione, al momento, è questa: per il suo tour che deve presentare al mondo l'«appetibilità» del sistema Paese dopo le sue cure, Monti ha il sensato desiderio di portare in valigia un pacchetto di compiti eseguiti, e che mai nessun altro aveva saputo portare a termine. In questo, lo stento degli ultimi governi è un termine di paragone che gli giova. Sul lavoro ha fatto capire, a metà tra minaccia politica e consapevolezza delle proprie prerogative, che è disposto a non dare troppo peso alle posizioni di sindacati e Confindustria, ma il discorso vale anche per il partiti. Al momento i contenuti della possibile riforma ruotano attorno ad articolo 18 (modello tedesco, cioè opzione tra reintegro e indennizzo in capo a un giudice con tempo di decisione limitato, sia per licenziamenti economici sia per quelli disciplinari) e ritocco degli ammortizzatori. Sul primo punto c'è il niet del sindacato, in particolar modo per gli esuberi motivati disciplinarmente. Sul secondo, le imprese sanno benissimo che caricarsi di oneri aggiuntivi significherebbe appioppare una zavorra letale per migliaia di aziende, specie piccole e medie. Un'ipotesi possibile è che questa riforma si sposti nel tempo, in modo da poter essere annunciata ma non applicata, ed eventualmente rivista da un altro Parlamento e da un altro esecutivo in tempi meno drammatici. L'impressione, però, è che in tutto questo i partiti non tocchino palla, bloccati peggio che in una foto e incapaci di portare al tavolo di Monti le esigenze di chi ha delegato a loro la propria rappresentanza. Nel Pdl chi è più vicino al mondo delle imprese ha iniziato in questi giorni una feroce opera di sensibilizzazione dei vertici nel tentativo di far passare l'evidenza, e cioè che il mondo che il Pdl ha la pretesa di rappresentare esce semplicemente caricato da nuove tasse chiamate riforma del lavoro. È chiaro che la coperta è drammaticamente corta, ed è impensabile non provvedere alla copertura dei costi delle tutele cui sempre più lavoratori devono ricorrere (il dato della Cig, +49%, lascia senza fiato). Ma se l'onere è a carico delle imprese, l'effetto è depressivo. Già questo - unito a una riforma dell'articolo 18 che, col sistema giudiziario italiano, può indurre qualche perplessità - potrebbe rendere il Pdl più cauto se non vuole perdere altri pezzi e altri voti. Ma il testo dove Alfano e i suoi hanno mille ragioni per mettere testa e occhi è quello della delega fiscale, passato in Consiglio dei ministri mentre ci si interrogava sulle motivazioni filosofiche e le conseguenze estetico-culturali del flash di Casini dal vertice di Palazzo Chigi. Se in occasione dei prossimi passaggi parlamentari di quel testo - che contiene un cammino di decreti legislativi «pesanti» - gli uomini del Pdl, ma anche Pd e Udc, dessero un'occhiata al contenuto, si accorgerebbero della micidiale cascata di tasse in esso contenuta. Nell'ordine, e superficialmente: cancellata l'ipotesi di riordino delle aliquote Irpef impostata (magari senza troppa convinzione) da Tremonti; addio all'abolizione dell'Irap; nuovi balzelli ecologici. Ma soprattutto, un aumento a tradimento della tassazione degli utili non reinvestiti che si cela nel passaggio dall'Ires all'Iri (a pagina 5 i dettagli). Si aggiungano Iva (a ottobre salirà al 23%) e Imu. Il combinato disposto è una pioggia che batterebbe tutti i record di pressione fiscale se solo non fossero già stati demoliti. A questo punto i partiti di maggioranza, che rappresentano comunque il mondo della piccola e media impresa, sono di fronte a un bivio. O mollano il colpo, una volta per tutte, e si mettono nella scia di Monti candidandolo per il 2013 a una coalizione indistinta (Grillo, la Lega, Di Pietro, ringrazierebbero), oppure si svegliano e fanno, né più né meno, il loro lavoro: difendono gli interessi di chi li ha votati e provano a prenderne i voti. Se al Pdl non fischiano le orecchie, vuol dire che ha perso anche quelle. di Martino Cervo