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Facci e gli altarini di Scalfaro: quel patto segreto con Bossi

La vera storia del ribaltone del 1994: il presidente si accordò col Senatùr per far fuori Berlusconi, considerato "un incidente"

Giulio Bucchi
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Il progetto del celeberrimo ribaltone fu messo nero su bianco da un certo Umberto Bossi nel libro «Il mio progetto» (Sperling & Kupfer, 1996) in cui si raccontava di un «Patto segreto» che lui e Scalfaro avevano siglato nel dicembre 1994: l'obbiettivo era evitare le urne dopo la caduta del governo Berlusconi. In sintesi: la Lega avrebbe difeso Scalfaro e Scalfaro avrebbe difeso il Parlamento, senza scioglierlo. Questo in teoria, perché quando il libro di Bossi venne editato - settembre 1996 - piovvero le smentite del Quirinale perché c'era poco da scherzare: Il Polo delle Libertà meditava di spingersi sino a una richiesta di impeachment e anche Marco Pannella - grande sponsor dell'elezione di Scalfaro al Quirinale, forse il più grande errore politico della sua vita - meditò di riprendere una raccolta di firme per la messa in stato di accusa. Ma la cosa fu lentamente riassorbita. Se il libro di Bossi fu la prova regina, di altri indizi ne erano già piovuti a centinaia. È noto che Scalfaro aveva incaricato Berlusconi come scelta ineludibile, e che anche per questo cercò di mettere subito i piedi nel piatto. Si oppose a Previti ministro della Giustizia, ma non solo: netto diniego anche a Gianfranco Miglio come ministro delle Riforme. Secondo una testimonianza dello stesso Miglio - contenuta nel libro «Scalfaro» di Riccardo Scarpa (Ideazione, 1999) - già allora, mentre Berlusconi preparava la lista dei ministri, Scalfaro disse a Bossi: «Se escluderai Miglio, quando rovescerai il governo io non scioglierò le Camere». Il ribaltone, complice una legge maggioritaria inquinata, in sostanza era già in pectore al governo. Il quale governo aveva già abbastanza difficoltà di suo: il Cavaliere era un novizio, c'era da spiegare al mondo che non era tornato il fascismo, Bossi già faceva i capricci, l'informazione sparava a palle incatenate. Per non parlare della magistratura, da cui Berlusconi cercò di difendersi con un Decreto - quello firmato da Alfredo Biondi - che appariva ineccepibile e malfatto al tempo stesso, e che spinse l'esecutivo a un dietro-front di miserevole dignità politica. Sta di fatto che Scalfaro stette sulla porta per un bel po', gelido, senza appoggiare o suggerire alcunché come aveva fatto altre volte. Quando il Cavaliere annunciò una manovra economica che anche la sinistra considerava segretamente buona (come ha raccontato l'economista Luigi Spaventa, ex candidato sindaco del Pds a Roma) i sindacati preannunciarono manifestazioni da paura: ma Scalfaro, anche qui diversamente dal solito, non si preoccupò, non convocò vertici sull'ordine pubblico né le solite parti sociali. Fu un capolavoro di ipocrisia politica da parte di tutti: la riforma delle pensioni proposta da Berlusconi (un tre per cento annuo in meno per chi fosse andato in pensione d'anzianità senza aver raggiunto l'età pensionabile) fu considerato uno scandalo anche se l'impianto sarà ripreso appieno dal successivo governo di Lamberto Dini. Anche Giuliano Amato, nel 1992, aveva fatto votare con legge delega (e con la fiducia) il divieto di comulare la pensione e altri redditi da lavoro, rompendo peraltro il muro dei 60 anni utili per l'età pensionabile; e anche Carlo Azeglio Ciampi, nel 1993, aveva abolito le baby pensioni senza che i sindacati e il Pds e Scalfaro avessero avuto da ridire. Ora, invece, per la manifestazione del 12 novembre 1994, si preparava l'inferno: roba da un milione di persone. Bossi, intanto, intensificava i suoi andirivieni col Quirinale e incontrava riservatamente Massimo D'Alema e Rocco Buttiglione. Il leader del Pds intanto annunciava che lui, se Berlusconi fosse caduto, avrebbe avallato un governo istituzionale senza problemi. Fa niente se anche gli osservatori più moderati erano nettamente contrari. Angelo Panebianco: «Non si comprende perché l'opposizione debba preferire la strada furbesca e trasformistica del ribaltone». Ernesto Galli della Loggia: «Non si spiega la paura delle elezioni che ispira ogni mossa dell'opposizione». Sergio Romano: «È assurdo puntare su un governo delle regole. Le regole le deve fare il Parlamento». Stava per nascere il governo del Presidente. «Nel nostro ordinamento è il Capo dello Stato a decidere», nicchiava D'Alema. Intanto l'invito a comparire per Berlusconi mandato dal Pool di Milano - 21 novembre 1994 - fu come l'attentato di Sarajevo per la Prima guerra mondiale: un acceleratore decisivo prima che la mancata riforma delle pensioni finisse ufficialmente il governo.   Racconterà Roberto Maroni: «Fece tutto Bossi. I motivi che lo spinsero a staccarsi da Berlusconi furono tanti, gravi e anche difficili da spiegare all'interno del movimento. Il mio rapporto con Scalfaro restò istituzionale, cioè da ministro a presidente, nulla più. Io ero personalmente contrario alla crisi, posizione che resi pubblica... Quanto a Scalfaro, tre mi sembrano i suoi interventi significativi: il ribaltone del 1994, contro la Lega Nord nel 1996-97 e in occasione della crisi del governo Prodi nel 1998. In tutti e tre i momenti mi è sembrato che la sua maggiore preoccupazione fosse di garantire la sopravvivenza del Parlamento». Cioè evitare le elezioni. Il 21 dicembre 1994 Scalfaro accolse le dimissioni con impassibilità: l'incidente di percorso - Berlusconi - era rimosso, ora poteva avanzare un nuovo governo del Presidente. Scalfaro ricomincerà a tessere trame da subito: metterà becco dappertutto e suggerirà o imporrà ministri vari, come Filippo Mancuso alla Giustizia. Per avere come ministro Susanna Agnelli, Scalfaro telefonerà personalmente a suo fratello Gianni. Il neo-governo per «imprimatur», tra altre, suscitò le ironie del politologo statunitense Edward Luttwak (allora consigliere di Clinton) il quale disse e scrisse, allora come oggi, che la democrazia era sospesa. Forse lo era anche più di oggi: anche perché, al tempo, a sostenere il governo non c'era una maggioranza parlamentare. Scalfaro comunque non si fermò. Allora come oggi, anche il governo »tecnico» di Lamberto Dini doveva avere una durata limitata e dedicarsi soltanto ai più pressanti problemi del Paese: ma il 6 marzo 1995, dopo una colazione al Quirinale, tutto sembrò cambiare. Elezioni? «Questo lo lasci decidere a me, e dopo di me al Parlamento», avrebbe detto Scalfaro secondo diverse ricostruzioni dell'epoca. E così Lamberto Dini, il mattino successivo, non annunciò il calendario finale del suo breve mandato, come tutti ufficialmente attendevano. E non fece più alcun riferimento alle elezioni, come tutti ufficialmente attendevano. Rimase lì, come tutti concretamente prevedevano. di Filippo Facci

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