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Lo Stato è pieno di debiti Rischia la bancarotta se paga

Bechis: l'amministrazione pubblica deve alle imprese 90 miliardi. Non può pagare ma non può farlo nemmeno l'Europa

Lucia Esposito
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Il carteggio si è intensificato proprio nelle ultime settimane, diventando sempre più insistente mano mano che sulla stampa italiana emergevano le prime indiscrezioni sui piani governativi per pagare il debito pregresso dello Stato con le imprese fornitrici. Eurostat ha preannunciato l'invio di una missione di suoi ispettori a Roma al ministero dell'Economia per vedere da vicino quel dossier. Le cifre circolate infatti sono considerevoli: il ministero dell'Economia ufficialmente aveva inserito nei suoi bilanci circa 37 miliardi di euro di debiti commerciali, le imprese fornitrici ne reclamano almeno 70 miliardi e secondo stime non ufficiali la somma reale sfiorerebbe addirittura i 90 miliardi di euro. Tradotti in percentuale significano fra 5 e 6 punti di pil. Ed è letto così che questo dossier sta facendo tremare i polsi anche al governo di Mario Monti. Perché le regole europee sul punto sono chiare: i debiti commerciali non vengono conteggiati per alcuno Stato nel perimetro del debito pubblico, a patto però che abbiano questa caratteristica. Dipende quindi da come si sono accumulati e dalla loro ragionevole durata. Se uno Stato - come sta accadendo in Italia - non paga i fornitori da due o tre anni, quei debiti non sono più commerciali, ma finanziari. E come tali vanno inglobati nel debito pubblico del Paese. Per il governo sarebbe una sciagura, perché se Eurostat li conteggiasse, il rapporto fra debito pubblico e Pil italiano schizzerebbe verso l'alto sfondando la quota monstre del 125%. Effetto identico a quello che sarebbe provocato dalla proposta più volte annunciata ufficialmente dal superministro Corrado Passera, di emettere nuovi titoli di Stato per pagare i crediti commerciali delle imprese fornitrici della pubblica amministrazione. Sembravano temi da convegnistica, da tavole rotonde fra studiosi, ma nel giro di poche settimane si sono trasformati nella prima emergenza per il governo italiano. Con gli ispettori di Eurostat che fanno sentire il loro fiato sul collo, qualsiasi soluzione annunciata e non ponderata rischia di provocare l'effetto opposto a quello desiderato. Perché se il debito pubblico italiano fosse riclassificato in quel modo, Monti non avrebbe alcuna possibilità di trattare un allentamento dei vincoli stabiliti dai nuovi trattati sul rapporto debito/pil, e l'Italia sarebbe condannata per lustri a varare manovra di rientro da oltre 40 miliardi di euro all'anno, con le conseguenze che tutti possono immaginare. Nelle ultime ore è spuntato un piano per risolvere l'impasse che coinvolga la Casa depositi e prestiti. Impropriamente presentato sulla stampa come una mossa governativa per ridurre il debito pubblico, sarebbe invece il tampone della disperazione per non farlo schizzare a cifre che l'Italia non sarebbe in grado di gestire. L'idea è quella di farsi finanziare dalla Cassa guidata da Franco Bassanini i pagamenti del debito pregresso con i fornitori attraverso una permuta fra liquidità o titoli commerciabili sul mercato da girare ai fornitori e partecipazioni azionarie del Tesoro in aziende dotate di buona liquidità come Sace e Fintecna. In pancia oggi la Cassa depositi e prestiti avrebbe parte delle risorse per compiere l'operazione, ma verrebbe del tutto snaturata la sua missione (che in parte non irrilevante è proprio quella di sostenere finanziariamente le pmi in crisi di liquidità), con il risultato di una parziale partita di giro che annullerebbe gli effetti dell'operazione. Qualsiasi operazione che però dia la garanzia statale su titoli emessi dalla Cassa depositi e prestiti andrebbe comunque ad incidere sul debito pubblico italiano, al di là della composizione azionaria. Per deconsolidarne gli effetti bisognerebbe non avere quella garanzia (e allora le imprese verrebbero pagate con titoli assai virtuali) o mutare gli assetti azionari della Cassa facendo crescere la quota delle fondazioni bancarie. Ipotesi in questo momento irrealistica, perché le fondazioni fanno già fatica a trovare le risorse necessarie a ricapitalizzare le banche di cui sono azioniste. Il dossier Cassa depositi e prestiti è aperto, ma rischia di richiedere troppi mesi di tempo per trovare le soluzioni tecniche digeribili, ed Eurostat questo margine non concederà. L'unica soluzione vera potrebbe essere quella del contrattacco. Portare per primi il dossier sul tavolo europeo, e cercare di fare assimilare il ruolo della Cassa depositi a quello della sorella tedesca Kfw, che riesce a de consolidare dal debito pubblico tedesco  i suoi 428 miliardi di euro di titoli di debito interamente garantiti dalla Repubblica federale guidata da Angela Merkel. Come? Dimostrando che la Cassa risponde ai criteri di Esa95, coprendo più della metà dei propri costi con ricavi ottenuti sul libero mercato del credito. Una strada in salita, ma non impraticabile. di Franco Bechis

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