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Il primo colpo all'articolo 18: salta fino a 50 dipendenti

Riforma del lavoro: norma per aumentare la soglia di non applicazione dell'obbligo di reintegro in caso di fusioni tra imperse

Giulio Bucchi
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L'articolo 18 torna a scaldare l'arena politica. Non potendo affrontare la questione nella riforma del mercato del lavoro, il governo di Mario Monti ha avuto l'idea di infilarlo all'interno del decreto sulle liberalizzazioni. Non si tratta dell'abolizione tout court del tanto vituperato articolo dello statuto dei lavoratori. Ma potrebbe essere un primo passo. In un passaggio del decreto, infatti, si parla di aumentare da quindici a cinquanta dipendenti la soglia di non applicazione dell'articolo 18 nelle imprese in caso di fusioni. Dunque, secondo la bozza del governo – che però è stata smentita da Palazzo Chigi – se due o tre imprese si fondono, il licenziamento senza giusta causa può essere effettuato per tutte le aziende al di sotto dei cinquanta dipendenti. La notizia, naturalmente, ha provocato subito la levata di scudi da parte dei sindacati. «I nostri studi dimostrano che l'articolo 18 non è un'anomalia. Si tratta di un dato certificato anche dall'Ocse. Vogliamo un confronto serio e il testo sulle liberalizzazioni non lo è. Qualcuno forse non vuole che ci sia confronto tra il governo e i sindacati», dice la Cgil. Per Raffaele Bonanni «l'articolo 18 non va modificato e non è stato oggetto di trattativa con il ministro Elsa Fornero». Secondo il leader della Cisl, «chi pensa che abolendolo si facilita l'occupazione, si sbaglia di grosso ed è davvero singolare ritrovare questo punto nella bozza sulle liberalizzazioni». Anche Luigi Angeletti è della stessa idea. «Inserire l'articolo 18 nelle liberalizzazioni è improprio. Non vedo nessun disastro a lasciare la normativa così com'è», osserva il segretario della Uil. I tre leader sindacali si vedranno oggi per fare il punto della situazione. Ma la sensazione ai vertici di Cgil, Cisl e Uil è quella di essere presi in giro dall'esecutivo. Perché il posto dove discutere di questo tema «deve essere il confronto tra governo e parti sociali sul mercato del lavoro». Se il governo «lo infila da altre parti, allora non è più credibile e la trattativa è a rischio». Su questo terreno fa sentire la sua voce anche il Partito democratico. «Non ragiono sulle bozze. Sul lavoro abbiamo una proposta innovativa, che consente di ridurre drasticamente la precarietà e di dare flessibilità al mercato, senza toccare l'articolo 18», osserva il segretario democratico. E il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, aggiunge che «questo tema deve restare fuori dal decreto perché con le liberalizzazioni non c'entra nulla». Mentre non linea con il suo partito continua a essere Piero Ichino secondo cui la sua difesa a oltranza dimostra «un blocco mentale» dei vertici del Pd. Palazzo Chigi, che ha smentito le indiscrezioni di stampa sulle liberalizzazioni, ieri non si è espresso in merito. Ma è probabile che alla fine la norma inserita nella bozza del decreto venga stralciata dal testo finale. Nel frattempo soddisfazione si registra dalle parti di Confindustria. È stata proprio Emma Marcegaglia, infatti, dopo l'incontro con il ministro Fornero, a definire il licenziamento solo con giusta causa come «un'anomalia tutta italiana». «E ora è arrivato il momento di eliminare questa anomalia», ha detto ieri il vice presidente degli industriali, Alberto Bombassei. E la guerra sull'articolo 18 continua. di Gianluca Roselli

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