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Di Pietro spara sul Quirinale: ora si traveste da Berlusconi

Tonino furioso per la bocciatura dei referendum. Ma quando il Cav criticava la Consulta gli dava del matto

Giulio Bucchi
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Per imputare scarsa coerenza a Di Pietro bisognerebbe prima potergliela immaginare. Non è quindi il caso di stupirsi se per una volta se la prende perfino coi giudici. Ieri l'ex magistrato è stato accusato da Pier Luigi Bersani di parlare come Berlusconi. È esattamente così. Ad avallare il paragone c'è l'oggetto delle sue sparate: la Corte costituzionale, bersaglio grosso dell'ex premier. «Abbiamo giudici della Corte Costituzionale eletti da tre capi dello Stato della sinistra, che fanno della Consulta non un organo di garanzia ma un organo politico», disse Berlusconi a caldo dopo la bocciatura del Lodo Alfano il 7 ottobre 2009. «Si tratta di una scelta che non ha nulla di giuridico e di costituzionale ma è politica», ha scandito l'uomo di Montenero di Bisaccia ieri dopo che la medesima Corte ha dichiarato illegittimi i due quesiti referendari sulla legge elettorale. La sobrietà di Silvio - Rispetto all'ex toga, Berlusconi fu quasi sobrio, dicendo che si sentiva preso in giro da un organo dominato dalla sinistra («E Napolitano sappiamo tutti da che parte viene»). Ieri Di Pietro ha sbraitato come non faceva da un po'. Al mattino era ancora tranquillo: «Mi auguro che la Corte ci faccia fare i referendum ma, se non sarà così, bisogna sedersi attorno a un tavolo tutti insieme e fare una nuova legge elettorale». Due ore e 26 minuti più tardi, il delirio: «È una deriva antidemocratica, manca solo l'olio di ricino. È una volgarità che rischia di diventare regime se non viene fermata dal popolo con le elezioni. È tempo di scendere nelle piazze e di passare  alla protesta attiva per non assistere più a questo scempio di democrazia». Pochi minuti e, per la quarta o quinta volta negli ultimi due anni, Napolitano prende carta e penna e lo manda a quel Paese. Al Colle ha dato fastidio la frase che parlava di un «piacere al Quirinale e al governo Monti», che per la verità è ciò che tutti pensavano (su queste pagine Franco Bechis aveva ipotizzato un orientamento non ostile all'esecutivo «patrocinato» da Napolitano, al quale un referendum avrebbe creato qualche guaio) e così è partito un comunicato velenoso in cui Di Pietro non viene citato ma comunque bastonato: «Insinuazione volgare e del tutto gratuita, che denota solo scorrettezza istituzionale». Poi per forza che Bersani tira fuori il paragone col Cavaliere. Arriva il marchese - La cosa terrificante è che l'orientamento della Corte era mediamente noto, sia per motivi istituzionali che politici, e a Di Pietro fa molto comodo urlare a vuoto rivendicando la facoltà di critica. L'unico vero guaio per lui è la rinuncia forzata ai rimborsi previsti dalla legge per i promotori del referendum in occasione di raggiungimento del quorum. Per il resto, il «no» della Consulta è una manna, perché ridà per un po' di tempo a Tonino un nemico: merce rara, al tempo di Monti. E infatti parte anche Micromega, che a stretto mandato dirama l'immancabile appello di Paolo Flores d'Arcais: «No alla Corte Costituzionale dell'inciucio», con dotta citazione della «Bicamerale del ricatto». Il doppio Nichi - Non è un caso che un altro sensibile quanto a demagogia, Nichi Vendola, sia rimasto vittima della stessa sindrome. Come ricordava ieri Claudio Cerasa, il governatore della Puglia nel 2009 aveva preso di petto la sfuriata del Cav: «La sentenza della Corte costituzionale è un duro colpo per l'arroganza di chi esigeva l'impunità. Ora è essenziale che tutti manifestino il massimo rispetto per le istituzioni e per le scelte di chi ha il compito di vigilare sulla fedeltà a principi sanciti dalla nostra Costituzione. Berlusconi è un elefante nella cristalleria». Ieri Vendola ha commentato così: «Provo un'immensa amarezza, il referendum è stato impedito e questo è preoccupante: non è una bella giornata per la democrazia italiana».  Il tentativo di aggrapparsi al sentire comune secondo cui l'accoppiata referendum-Cosentino sarebbe una «rivincita della Casta» è abbastanza scoperto, e può contare su di un caravanserraglio ben munito. In passato più o meno ha funzionato: la carriera politica di Di Pietro coincide con le sue cavalcate in groppa a un sentimento comune di vaga indignazione in attesa di bersagli. Adesso, però, il calcolo rischia di sballare, perché è cambiato il mondo. E se la Lega rischia di andare in pezzi, il Pdl non gode di grande salute e il Pd arranca, non è scontato che a Di Pietro sia risparmiata una buona dose di fatica. di Martino Cervo

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