Se i figli diventano un genere letterario
A Book City, la kermesse milanese dedicata alla letteratura, si sono moltiplicati i convegni su «padri & figli» attraverso i libri
Il senso di inadeguatezza dei padri è, senza dubbio, il topos più letterario che esista.. L'altra sera, tra un estenuante cambio di pannolino e un esorcismo a mio figlio Gregorio (invaso dalla sindrome dei terrible two: i due anni del capriccio artistico) sfogliavo il Diario di un cattivo papà (Rizzoli Lizard, 195 pp, 12 euro) di Guy Delisle. Delisle è narratore e cartoonist sublime (Cronache birmane, Pyongyang, Cronache di Gerusalemme), ma come padre merita la fucilazione. É uno che, per dire, si dimentica per tre sere di seguito della visita del topino dei denti, lascia la figlia sola alla lezione di nuoto e s'impappina, sudando, nel somministrare pietose bugie al figlioletto sull'esistenza del coniglio pasquale spacciato per l'Harvey del film di Jimmy Stewart («Pesa più di 80 chili, è tutto in peluche e fa de salti pazzeschi. Lo so perchè è un mio amico!»). Leggevo con tenerezza, e sorridevo. Perchè mi tornava in mente la volta che, per stirare un sorriso al mio, di figlio, mi ero esibito in piccole testate al muro, accompagnate da smorfie alla Checco Zalone. Uno spettacolo pietoso. Il giorno dopo, il mio torello cercava allegramente di fracassare sui muri dell'asilo il cranio degli amichetti, gridando «Fai come Papà!..»; ho visto l'orrore negli occhi delle maestre. Come si fa, qui, si sbaglia. Aveva ragione Francis Bacon: se uno ha dei figli, ha dato un ostaggio alla sorte. Vale dal nido all'università. La scorsa settimana s'è celebrata la Giornata Mondiale dell'infanzia e dell'adolescenza; Save the Children afferma che l'Italia destina ai minori solo l'1% del Pil, ed è al penultimo posto al mondo. Non è buon segno, per chi vede la prole con un grande avvenire dietro le spalle. E a Book City, la kermesse milanese dedicata alla letteratura appena passata, si sono moltiplicati i convegni su «padri & figli» attraverso i libri (Daniele Bresciani con Ti volevo dire, dopodomani Scurati con Il padre infedele, poi Serra con Gli sdraiati). Non ci sono andato. Perchè trovo ansiogeno questo frullare d'opinioni sul transfert padre/modello e padre/da odiare; sull'incapacità d'educare di noi residui degli anni 70; sulle diserzioni dei genitori moderni dalle esigenze dei figli; sul «tabù dell'incomunicabilità» tra generazioni depresse, roba sfatata dalla «rinnovata necessità del conflitto generazionale». É la maledizione di Alberoni: il lessico dell'educazione sentimentale che ritorna, così, senza un perchè. Insomma, rifuggo tutti i suddetti esprit letterari in cui ognuno si sente in dovere di spiegarti come dovresti esercitare il mestiere più difficile del mondo, e affrontare l'irreversibile condizione di papà. Per onestà, il vizio è antico. L'ex direttore del Tempo Barbiellini Amidei tenne su Oggi una rubrica su «I nostri ragazzi» (cioè, i suoi) dove spiegava come trattare i bambini; la tenne per eoni, anche se i suoi bambini erano cresciutelli, laureati, ben piazzati e a loro volta con prole. Oggi Camila Raznovich verga una rubrica sul Corsera, «M'ammazza», per spiegarci quanto frenetica e irresistibile sia la sua ex piccina (è una bambina, Camila: le bambine corrono, scalciano, picchiano i maschietti...) e Antonella Clerici presenta la figlia a Sanremo in stile ostensione della Sindone. Ma sto deviando. Il problema vero è che, quando figliano, gl'intellettuali sono pericolosissimi. É meravigliosamente incongruo- seppur letterariamente fascinoso- il dialogo rispolverato in questi giorni dal Corriere della sera tra l'attrice Laura Morante e il regista Sandro Veronesi sull'amore transgenerazionale. Lui che confessa che «di solito considero ogni potenziale punto di conflitto con i miei figli come un'occasione di ripensarmi». Lei che - punte inarrivabili di snobismo- rivendica le sue «imperfezioni» ed invoca l'«equivoco dell'amore» di David Foster Wallace: cioè i figli non desiderano essere tanto amati dai genitori - cosa scontata- , quanto sentirsi apprezzati. Ed è una banale verità, anche se non serviva Foster Wallace per ricordarla. In realtà ognuno ripercorre i modelli genitoriali che la vita ti ha imposto. E non è detto siano quelli sbagliati. Io vengo da una famiglia di militari, anaffetiva e ruvida come una divisa da campo. Mio padre dava ordini; si esprimeva a dittonghi che spesso non capiva neanche lui. Io leggevo Kerouac, Fante e Saint Exupery e lui dettava un mattinale che richiedeva rispetto della gerarchia. Il modello del bastone senza la carota, meno Montessori e più generale Patton. Gliel'aveva inculcato il padre, militare a sua volta che, ad ogni cazzatella, lo costringeva a flessioni notturne all'adiaccio. In compenso papà si ricordava sempre del topino dei denti. Ho avuto, tirando le somme, un'infanzia bellissima e un'adolescenza da psicanalisi. Ma, in fondo, non mi drogo, tento di camminare sul filo del rispetto e dell'onore, e ho un figlio che educherò allo stesso modo, magari sorridendo di più e parlandogli di conigli giganti che pesano 80 chili. Mario Monicelli una volta mi disse: «l'unica cosa che un padre possa fare per i figli è sparire». Ma la sua era, appunto, inadeguatzza letteraria. Credo. di Franceso Specchia