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L'ultima frontiera omo: una recita lesbo per i bimbi di sette anni

La nuova educazione a Bologna: la Bella Addormentata è gay. Ma per loro è "una lezione di diversità"

Lucia Esposito
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Ebbene sì, lo confesso, sono un diverso: ho una famiglia normale. Ai miei figli ho sempre raccontato le storie con il Principe e la principessa (ed è già un elemento di evidente omofobia), ho cercato di spiegare che in principio c'erano Adamo ed Eva (e non Adamo e Evo) e ho insegnato loro ad essere “tolleranti”, parola ormai bandita, dalla nuova cultura dominante, insieme a “comunità gay”, “icona gay” e “famiglia gay” (ora vi spiegheremo perché, o almeno ci proveremo). L'altro giorno quando sul palco di Morandi sentivamo Checco Zalone che scherzava su Romeo e Giulietto, facendo allusioni pesanti sulla reale natura della treccia,  noi pensavamo che fosse uno scherzo. Invece tra un po', vedrete, cominceranno a chiederci di cambiare i testi classici. E dunque saremo costretti a dire (salvo esposizione alla pubblica gogna del Muccassassina) che sicuramente Petrarca scriveva odi a Lauro, Dante inseguiva il mito di Beatricio e Leopardi rivolgeva parole d'amore a Silvio. “Rimembri ancor?”, e avanti, chissà come si divertiranno con le battute al sapor antiberlusconiano.  Voi pensate che sia un'iperbole? Macchè. A Bologna hanno già  cominciato. E con i soldi pubblici hanno organizzato uno spettacolo al teatro Testoni che ripercorre la Bella addormentata in versione lesbo. La bella Rosaspina, infatti, si risveglia non per il bacio di un principe, ma di una principessa, e tutti vissero gay e contenti (anche grazie all'edificio ottenuto in comodato d'uso gratuito e agli 810mila euro forniti dal Comune). Uno potrebbe interrogarsi sul perché i sindaci che piangono sempre miseria finanziano un teatro capace di mettere in scena questi spettacoli, ma tant'è, non è questo il problema principale. Il problema principale, infatti, è che a questi spettacoli vengono portati (o deportati) bambini di 7 anni. Costretti ad assistere a scene che probabilmente non possono capire.  E che sicuramente li possono influenzare. Voi  vi rendete conto: portare bambini di 7 anni a vedere uno spettacolo gay significa aver già ribaltato completamente il concetto di “normalità”. Significa, cioè, passare dalla sacrosanta lotta per i diritti degli omosessuali alla assai più discutibile lotta per la supremazia degli omosessuali. La comunità gay  non vuole più essere tutelata: vuole imporre i suoi modelli. Non le basta il giusto riconoscimento: vuole educare i bambini all'omosessualità. Vuole, in altre parole, ribaltare completamente il fondamento su cui questa società è costruita, e imporne un altro dal colore rosa, o arcobaleno che dir si voglia. E questo desiderio è così forte e arrogante che la comunità gay arriva addirittura alla pretesa di non essere chiamata comunità gay. Proprio così. Infatti mentre a Bologna si allestiscono lesbo matinée per studenti da avviare alla pratica omo, a Roma e Milano è stato presentato un decalogo per giornalisti contro il “vizietto”, così dice il titolo. Si badi bene: si tratta di roba ufficiale, con il timbro dell'Ordine nazionale e del potente sindacato unitario, la Fnsi. E che cosa dice questo catalogo? Appunto: che non si può dire “comunità gay” perché non esiste la “comunità gay” (ovvio: siamo tutti gay), non si può dire neanche “icona gay” perché è spiacevole e non si può dire nemmeno “famiglia gay” perché è discriminante. Vietato anche l'uso dell'espressione “outing”, che avrebbe caratteristiche negative, del verbo “tollerare” da sostituire rigorosamente con “rispettare” e dell'espressione “il trans” (se uno diventa donna, guai a chi non usa l'articolo femminile, la trans). Si arriva persino al paradosso che il movimento delle lesbiche impedisce l'uso della parola “lesbica”. Perché? Perché a loro non piace. O meglio, non piace più. Le regole della nuova cultura gay-dominante  sono severe e stringenti. In attesa di modificare anche sintassi e ortografia (siamo sicuri che l'apostrofo possa essere tutto maschile? E la virgola che sta in basso femminile? Non sarà meglio ribattezzarli in forma omo e metterli sullo stesso piano?) il decalogo per giornalisti precisa anche che in caso di coppia gay non si può usare il termine madre (ma mamma sì: non chiedetemi di spiegarvelo perché non l'ho capito, ma per evitare guai lo assumo come dogma) e il termine “fidanzato”. Un gay non ha un fidanzato: al massimo ha un'amicizia affettuosa. O, al massimo, intima. Almeno fino a quando non ha deciso di fare outing (anche se outing non si può dire).  Chi riesce a salvarsi è bravo. Vi rendete conto? A parte che avendo messo il timbro su una scempiaggine del genere l'Ordine dei giornalisti ha dimostrato una volta di più , che il giorno in cui sarà abolito sarà sempre troppo tardi, resta la sostanza che corre sull'asse Roma-Milano-Bologna e cioè il salto di livello che sta facendo il mondo gay (anche se mondo gay non si può dire): dal teatro alla lingua ora vuole imporre i suoi modelli, vuole imporre la sua supremazia, e chi è fuori si deve già per questo, in qualche modo, sentire in colpa. Ad agosto un ragazzino di 14 anni si è buttato giù dalla finestra della sua casa, a San Basilio, a Roma. Era gay, era a disagio. Immediatamente sono stati messi sotto inchiesta amici e compagni, accusati di averlo istigato al suicidio. La notizia finì su tutte le prime pagine. Ieri amici e compagni sono stati scagionati. La notizia è finita in un trafiletto in cronaca. E nessuno chiederà scusa a quelle persone sospettate e infamate: in fondo, non essendo gay, qualche colpa ce l'hanno di sicuro.  di Mario Giordano  

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