I soldi dello Statofan male alla cultura
Macché tasse e finanziamenti: inerzia e burocrazia hanno bloccato fondi europei per 2 mld. De Michelis: "Non servono quattrini, ma autonomia"
di Francesco Specchia Quando sento parlare non di cultura, ma di addetti italiani (i nostri piccoli, polverosi Jack Lang) alla «Cultura» metto mano al revolver. Brutta bestia nel cuore, la querelle sul finanziamento pubblico nel paese che vanta il più alto numero al mondo di beni patrimonio dell'umanità (dati Unesco). In questi giorni da un lato si fanno sentire Marco Müller e Paolo Ferrari, rispettivamente direttore e presidente della Festa del Cinema di Roma, che chiedono più soldi per la loro creaturina; tra l'altro - arabesco del destino- Müller la pensava assai diversamente quando dirigeva la concorrente Mostra di Venezia. Dall'altro, svetta Cesare De Michelis, intellettuale fuori dal branco ed editore di Marsilio, il quale sul Corriere della sera risponde alla ventilata ipotesi d'ispirazione parigina di tassare i cittadini a favore della cultura, con una contro-proposta choc: «Alla cultura italiana non servono fondi pubblici a pioggia: senza una riforma del sistema hanno solo un effetto disgregatore e antifunzionale. Bisogna azzerare l'aiuto pubblico così com'è. Deve invece esserci una autonomia gestionale dei vari enti -musei, biblioteche, archivi, che li obblighi a misurare costi e benefici, a fare attività di marketing sul territorio, con le imprese». De Michelis mastica questa materia, l'economia della cultura, da sempre. E ha pure introdotto la versione italiana del best seller tedesco Kulturinfarkt dove si spiega dettagliatamente di come le sovvenzioni indiscriminate per arte e letteratura hanno creato una bolla di parassitismo e dilettantismo artistico. «Lo affermo con prove: ridurre i contributi, per esempio, dei teatri lirici ha innescato in molti casi un circolo virtuoso: la Fenice è il teatro più produttivo d'Italia, ha aumentato il 30% delle affluenze proponendo più repliche della Traviata e curandone l'esportazione all'estero». Tutto il contrario della landa desolata di Pompei, o della Reggia di Caserta, ad esempio. «A questo punto è meglio la fiscalizzazione dei contributi dei privati. Lo sa che quest'anno molte Sovrintendenze del Paese, sprofondate nei modelli burocratici, non riescono a spendere la metà dei soldi ricevuti?». No, non lo so. Ma ora che lo so, la notizia m'inquieta come l'esile figura del ministro Bray. Così, preso da raptus anticasta, risfoglio il dossier pubblicato poco tempo fa da Eurostat e ben ripreso dal sito di politica l'Infiltrato.it. Da lì emerge che l'Italia è anche il Paese che spende meno in cultura: appena l'1,1% del Pil contro il 2,2% medio dell'Ue. Meno anche di quanto spende la disastrata Grecia che si ferma all'1,2% del Pil. Ma non è che i soldi non ci siano. É che li spendono male. Anzi, non li spendono proprio. Dal 2007 hanno sprecato 2 miliardi fondi europei. Le nostre regioni hanno a disposizione dal 2007 oltre ai due fondi europei – il Fesr e il Fes (Fondo Sociale Europeo) – 59,4 miliardi da cui si poteva spuntare qualcosa- anche i cosiddetti «attrattori culturali». Ossia Poin e Pain, acronimi che indicano i programmi operativi e attuativi interregionali specie per il Sud. Trattasi di una dotazione complessiva di 2 miliardi di euro «di cui una quota di poco superiore al miliardo di euro (1.031 miliardi) a valere sui fondi strutturali del FESR e del relativo cofinanziamento nazionale ed una leggermente inferiore (898 milioni) resa disponibile dalle risorse aggiuntive della programmazione nazionale del Fondo Aree Sottoutilizzate (FAS)». Dovevano essere investiti entro la fine del 2013. Oh, ci fosse stato un ministro di destra o sinsitra, un sottosegretario, un sovrintendente che li avesse presi e utilizzati per finanziare i mitici «progetti culturali». Mentre da una parte s'invocava l'austerity, dall'altra una pigrizia invincibile e avviluppata, a detta di chi allora non mosse un muscolo da «cavilli burocratici», buttava danaro fresco. Parte tutto nel 2007 da Sandro Bondi, il quale, crollati due muri a Pompei, entra in uno stato di catatonia culturale che gli fa dimenticare di avere soldi in saccoccia, pur lamentadosi di non averli. Sicchè allora i fondi, come Il naso di Gogol, passano di mano in mano, ministro in ministro; prima al berlusconiano Raffaele Fitto delle Poliche regionale, poi al montiamo Fabrizio Barca alla Coesione Territoriale. Naturalmente, nel frattempo, latitanti gli investimenti anche solo sulla carta, scatta il «disimpegno automatico» e parte dei fondi rientra in Europa; stessa procedura si verifica nel 2012, col rientro di 33,3 milioni. Spiega l'Infiltrato: «Su più di un miliardo previsto dai fondi Fesr per gli attrattori culturali solo il 16,34% è stato impegnato in pagamenti effettivi. In soldoni: 166 milioni su un miliardo». Ah, metteteci anche le altre sanzioni arrivate dal Comitato Quadro Strategico Nazionale, perchè l'Italia è incline a non rispettare i patti. Tra l'altro, i burocrati, quando non presentavano i progetti (quasi sempre), li presentavano sbagliando, perfino semanticamente, la domande. Ora, una fiammella che eviti lo sputtanamento totale ancora balugina. Ad onor del vero Fabrizio Barca, mesi fa, presentò un nuovo piano di investimento culturale per non disperdere almeno i 681 milioni rimasti (previsti 105 milioni per Pompei, 21 per Sibari e 20 per la Reggia di Caserta). C'è tempo fino al 2015, Enrico Letta è avvertito. Dice De Michelis: «Il problema è il solito: la latitanza del criterio meritocratico». Vale per i politici e la mandria di inani burocrati che spesso li guidano. La mano sempre sul revolver...