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Bechis: vi racconto di quando dimezzai lo stipendio ad Andreotti

Giulio Andreotti

Da direttore del "Tempo" fui costretto a tagliargli la paga: la prese bene. Una volta mi disse: "Il Cav è un genio"

Giulio Bucchi
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di Franco Bechis Non era facile dirglielo. E devo averlo fatto proprio male, perché dopo un'ora di amabilissima chiacchierata e di lunghi giri di parole nel suo studio da senatore a vita a palazzo Giustiniani, Giulio Andreotti si era stretto la giacca da camera di lana intorno al collo, e chino su alcuni fogli, mi disse: «Allora, vuole licenziarmi? Non avete più bisogno di me?». Era il 2004, ero direttore de  Il Tempo e Andreotti era una delle prime firme del quotidiano: da alcuni anni curava tre giorni alla settimana la rubrica delle lettere, cui per contratto si aggiungevano quattro editoriali al mese. Un commentatore di prestigio, e un contratto importante anche per il peso economico che aveva. L'editoria iniziava a sentire i morsi della crisi, tutti i gruppi cercavano di ridurre le proprie spese, e il quotidiano romano non faceva eccezione. Dall'amministrazione avevo ricevuto il compito di ritrattare il compenso di Andreotti, con la speranza di arrivare a un taglio del 50%. Non sapevo proprio come dirglielo quel giorno. Non fu evidentemente felice il giro di parole che trovai per entrare in argomento: «Allora, vuole licenziarmi?». No, mai nemmeno immaginato. Eppure quel mio infortunio fu quasi una fortuna, perché di fronte al timore della rottura unilaterale del rapporto di collaborazione, fu quasi un gioco da ragazzi dimezzare “lo stipendio” a quell'uomo che aveva fatto la storia d'Italia. «So di essere stato ben pagato in questi anni», disse Andreotti, «ma sa, ne avevo bisogno perché i miei difensori, il professore Coppi e Giulia Bongiorno, hanno onorari assai salati. Ora i processi sono finiti, e ne ho meno bisogno. Però mi piacerebbe continuare a rispondere alle domande dei lettori del Tempo. Scrivere mi fa sentire ancora in vita anche alla mia età…». Quando disse “ancora in vita”, non sembrò un vezzo: la voce si incrinò, era sincero.  Leggi l'articolo integrale di Franco Bechis su Libero in edicola oggi, martedì 7 maggio

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