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Antonio Conte, gli Agnelli, la Juve e un tricolore: il 31°

Giampiero Mughini

Le riflessioni prima che inizi la festa scudetto. E un messaggio: "Grazie, mister"

Andrea Tempestini
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di Giampiero Mughini Premetto che sto facendo le corna con tutte le mani che ho. Detto questo se oggi pomeriggio la Juve si chiude in difesa, magari rafforzata dal richiamo in campo di difensori formidabili quali Sergio Brio e Paolo Montero, riesce a pattare con il Palermo allo stadio di Torino. E dunque a guadagnarsi il punto decisivo per fare trentuno (scudetti). Non dovesse riuscirci oggi, e beninteso adottando tutti i mezzi possibili sia leciti che illeciti (come Franz Beckenbauer temeva avrebbe fatto il Barcellona nel suo stadio, salvo poi scusarsi di aver detto una tale porcata), quel punticino lo dovremmo racimolare in una delle tre domeniche successive.  Che cos'è un punto rispetto all'infinito della vita e del calcio? E comunque Luciano Moggi è già impegnato 24 ore al giorno a telefonare a mezzo mondo, arbitri, designatori, assaggiatori, agenti di escort. A convincerli di aiutare la Juve a prenderselo quel punticino. Non è forse così, a furia di telefonate di Moggi, che la Juventus ha vinto tutto quel che si poteva vincere tra 1994 e 2006? Massimo Moratti dixit, e Moratti è un uomo d'onore. Telefonate nel 2006, quando la Juve costituiva l'ossatura dell'Italia campione del mondo, telefonate oggi quando l'Inter sta lì dietro non ricordo più se a 25 punti o di più. Insomma, e sia pure con tutte le corna del mondo, saranno 31 gli scudetti vinti sul campo (e dove altro si dovrebbero vincere gli scudetti?). Cade bene la mostra che sta per aprirsi al Juventus-Museum di Torino a celebrare i 90 anni che la famiglia Agnelli e la Juve fanno tutt'uno. Tranne il primo, quello iniziale del 1905, tutti gli scudetti della Juventus hanno avuto il patrocinio e l'impulso di quella famiglia regale. Dapprima l'Agnelli di seconda generazione, Edoardo Agnelli, poi suo figlio l'avvocato Gianni, poi il figlio cadetto «il dottor» Umberto, adesso Andrea Agnelli, quello che assistette all'apocalisse di «Moggiopoli» impotente mentre stavano linciando gli uomini scelti e apprezzati da suo padre Umberto («Moggi è il nostro Maradona», aveva detto una volta)  È la trentesima vittoria della famiglia Agnelli. È la seconda vittoria su due di Mister Antonio Conte. Poche chiacchiere, il pugliese ha raccolto le rovine di una squadra che per due volte di seguito aveva stentato a raggiungere il settimo posto e l'ha trasformata in una squadra che per due anni non ha avuto avversari in Italia. Perché non contano solo i punti che fai, conta il marchio. E il marchio «Conte» sulla Juve recente lo avvisti a centinaia di chilometri di distanza, quel gioco di squadra e d'assieme dove tutti aiutano tutti, e se un avversario ha la palla e si dà delle arie gli vanno addosso in tre, e non sono gli attaccanti ad attaccare ma tutta la squadra, e quella difesa a tre che pare fatta di marmo, e il fatto che sino all'ultimo istante dell'ultimo minuto ci dài sotto, com'è stato con lo sfortunato Torino. Tutto made by Conte.  Sarà il prossimo l'ultimo anno del mister alla Juve? Temo di sì. Se la distanza della Juve dalle massime squadre europee resta quella di Juve-Bayern quarto di finale della Champions, temo di sì. A queste condizioni di mercato e di bilancio la Juve non può competere con gli squadroni tedeschi o spagnoli, con club come il Barcellona che ha annunciato sei grandi acquisti a compensare il declino di una squadra che non è più la dominatrice dei tornei. Se la Juve di adesso punta a uno dei cinque o sei top-player europei, purtroppo non ci arriva. Né per soldi né per prestigio internazionale. La Juve del 1994-2006 sapeva e poteva arrivare a Zidane, a Ibrahimovic, a Nedved. Il pur eccellente Giuseppe Marotta non ce la fa. Se sulle fasce del campo hai Robben e Ribéry è una cosa, se hai Asamohah e Isla è un'altra.  E poi diciamolo lealmente e senza offesa per nessuno. Se la tua unica punta è Vucinic, uno che in fatto di schiccherie calcistiche non è secondo a nessun, ma che in fatto di possibili devastazioni in attacco non è e non sarà mai risolutivo, allora puoi vincere sì il prossimo trentaduesimo scudetto (altre corna!) ma certo non andare in cima all'Europa. E uno come Conte l'ambizione di andare in cima all'Europa ce l'ha appena si sveglia al mattino e durante tutta la giornata, prima e dopo i pasti. Se la Juve dell'anno prossimo resta nella graduatoria europea quella che è adesso - nelle prime otto, posizione eccellente ma non bastevole alla storia del club - Conte fa i bagagli, ci dà un arrivederci commosso e se ne va. Siamo in Italia, non in Paradiso. E mai, nel calcio come in tutti gli altri comparti della nostra vita, il Paradiso è stato così lontano. Grazie, mister.

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