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Pd, tutti i 54 errori che sono costati la vita (politica) a Bersani

Dopo il voto, un passo falso al giorno. Se si fosse arreso prima all'intesa col Cav, sarebbe potuto diventare premier. Invece ha perso tutto

Giulio Bucchi
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di Pietro Senaldi «Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco...». L'unica massima della saggezza popolare che Bersani non ha usato in campagna elettorale è quella che gli sarebbe stata più utile. Di essere il più furbo forse non l'ha mai pensato neppure lui ma certo si è comportato come l'unico che potesse decidere il gioco, persuaso che le contingenze fossero destinate per inerzia a girare tutte in suo favore. Dall'illusione di essere l'uomo baciato dal destino, consolidata da due anni di sondaggi trionfanti e deliri anti-berlusconiani di piazza, tv e salotti, nascono i principali errori che hanno portato alle dimissioni delsegretario, travoltodagli eventi, scaricato dagli alleati che si è scelto, ripudiato dalla classe dirigente che ha allevato, abbandonato dagli amici che ha rinnegato. A corrergli in soccorso per carità di patria sono i suoi grandi nemici: quello interno, Napolitano, che per salvare il Paese e quel che resta della sinistra ne ha raccolto le suppliche, e quello di sempre, Berlusconi, che da due mesi gli indicava la strada. Per Bersani ieri è stato il giorno dell'umiliazione. Al mattino sul Colle ha dovuto arrendersi all'uomo che un anno e mezzo fa gli sbarrò la strada di Palazzo Chigi negandogli elezioni che lo avrebbero visto sicuro vincitore e che nell'ultimo mese si è rifiutato di dargli l'incarico per tentare un governo coi grillini. Il fallimento della candidatura di Rodotà - seriamente presa in considerazione dai bersaniani nella notte tra venerdì e sabato e accantonata solo di fronte all'evidente mancanza dei numeri - e la marcia golpista su Roma dei Cinque Stelle sono arrivate poco dopo a dimostrare quel che a tutti fuorché al segretario era evidente da sempre: un governo con M5S non si sarebbe mai potuto fare perché mezzo Pd non lo vuole e perché di Grillo non ci si può fidare in quanto testa calda e per di più con lo scopo dichiarato di mangiarsi la sinistra. Nel pomeriggio Bersani si è arreso in Parlamento e votando la rielezione di Napolitano ha messo la firma sul quello che dal 26 febbraio Berlusconi gli chiede: un governo di larghe intese con esponenti di Pd e Pdl per riscrivere la legge elettorale e rilanciare l'economia. Fino a una settimana fa, se avesse detto sì, Bersani avrebbe potuto esserne il premier, ora le sue dimissioni sono la condizione necessaria perché parta. L'elezione di Napolitano per il segretario è liberatoria, tanto che all'annuncio gli crollano i nervi e piange in aula: finalmente è finita, può andarsene, ma mai ritiro fu più tardivo. Bersani era già morto la sera delle elezioni non vinte e lì avrebbe dovuto lasciare, non per galateo ma per opportunità. Invece, esponendosi agli sfottò di Grillo e alle silenziose perplessità del Quirinale, il segretario ha amplificato il vuoto di potere interno al Pd, già per storia e vocazione incline a coltellate fratricide e lotte per bande. Per due mesi intorno al cadavere politico di Bersani ogni capetto si è giocato la propria partita senza riguardo per la salute del partito. Perfino neoeletti come Civati, la Moretti o Orfini si sono atteggiati a maîtres à penser della sinistra infierendo sul capo indebolito al quale pure molti devono tutto. Alla prima occasione la polveriera è esplosa e nessuno ha avuto remore nel trasformare un appuntamento istituzionale come l'elezione del capo dello Stato nell'occasione per un regolamento di conti interno. Il più smaccato è stato Renzi, consumato dalla fretta di tornare al voto. Dalla battaglia esce sconfitto anche lui, non perché è stato bocciato il suo candidato - Prodi - ma per il danno d'immagine. Però ha delle attenuanti: succube dell'ala sinistra, Bersani anziché aprirgli le porte come unica novità in grado di allargare il bacino elettorale, gli ha fatto una guerra talebana. In Usa le primarie si concludono con lo sconfitto che fa da vice al vincitore. Nel Pd, con la sua emarginazione. Anche con i vecchi ha sbagliato. Rottamarli forse non era differibile ma quel che Bersani non ha capito è che mandando in pensione D'Alema, Veltroni e compagni, stava mettendo le basi anche per la propria rottamazione. Si è illuso che essere il capo lo preservasse dal feroce scontro generazionale in atto nel Pd e ha tagliato i ponti. Risultato: nel momento del bisogno ognuno ha fatto il suo gioco e sparare sul segretario non è stato un problema. D'Alema ha fatto impallinare il rancoroso nemico Prodi, gli ex margheritini si sono vendicati della mancata elezione di Marini. Ma i peggiori - brutta notizia per il Pd - sonostate lenuove leve. Alimentati da furore grillino, hanno impallinato per due volte il candidato del segretario, convergendo poi sul nome di Napolitano solo per calcolo e per la paura presa. Ma l'elezione di ieri non ricompatta la sinistra né il Pd. Dietro i Barca e i Vendola, che si sono pubblicamente dissociati, cova il dissenso di decine di parlamentari che rispondono più alle indicazioni dei loro supporter su Facebook e Twitter che a quelle del partito. Sono giovani, desiderosi di potere e convinti di poter cambiare in sei mesi la politica italiana. Hanno la tessera del Pd ma culturalmente sono grillini, parlano di no-Tav e salario minimo più che di pressione fiscale e spread. Quando il governo del presidente li costringerà a votare misure impopolari a fianco di Berlusconi e Monti in molti saranno attratti da Vendola, che ha già annunciato un nuovo partito aperto ai delusi del Pd. Sono i figli delle primarie per deputati, altro grande errore di Bersani, che con esse ha abdicato ai propri poteri di segretario e ha aperto il partito ai signori dei circoli. Per diventare parlamentari bastavano poche migliaia di voti e di fan virtuali. Sono i deputati che Pier ha dichiarato di «non conoscere» e contro i quali si è scagliato definendoli «traditori». Sono gli ultimi arrivati, ma nel partito dei rottamatori pensano solo per questo di avere più diritti degli altri. Se un leader politico si valuta da quel chelascia, il giudizio su Bersani non può che essere negativo. In eredità consegna un partito allo sbando, costretto a governare col suo nemico di sempre, con una classe dirigente azzerata e un'altra appena invia diformazione. Il Pd va incontro a un congresso a settimane senza sapere chi comanda, chi sta con chi e chi tra tre mesi sarà ancora nel partito. Alla testa di questa formazione scalcagnata e per di più con Grillo, Pier Luigi pretendeva di guidare l'Italia fuori dalle nebbia della crisi mondiale più grande degli ultimi cent'anni. Che sia stato costretto alle dimissioni è una buona notizia, come lo è l'inevitabile scissione che si profila nel Pd, che finalmente sarà costretto a uscire dall'equivoco: il tentativo di conciliare l'anima progressista-riformista con quella che un tempo era operaista e ora è un mix di centri sociali, associazionismo e salotti radical chic. Per inseguirla Bersani si è alleato con Vendola contro Renzi, ha scaricato Casini e Monti nell'eterno tentativo di coprirsi a sinistra. E si è scavato la fossa, facendo la fine di Prodi.

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