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Il buon pranzo non è a km zero:il libro distrugge lo slow food

Gastronomicamente scorretto. Ecco il pamphlet del docente che smonta tutti i luoghi comuni sul mito del cibo "chilometricamente" sostenibile

Andrea Tempestini
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di Camillo Langone Forse senza saperlo, Laterza ha pubblicato un libro che smentisce tutte le linee-guida della sinistra (e anche del centro alleato alla sinistra) in materia di cibo. La sobrietà montiana e il gastronomicamente corretto caro al Pd e ai vendoliani (chilometro zero, Slow Food, biologico...) ne escono a pezzi.  Purtroppo per la verità e per fortuna di Bersani e Monti i libri seri non li legge nessuno, e questo di Emanuela Scarpellini, docente di storia contemporanea all'università di Milano, è davvero un libro serissimo. Nonostante le dimensioni cospicue, A tavola! Gli italiani in 7 pranzi me lo sono gustato dalla prima all'ultima riga (ci ho messo un po' di tempo, chiaro). Mentre tanti saggi e saggetti basta annusarli per capire quanto valgono, di solito tra il poco e il nulla, questa storia dell'alimentazione italiana dal 1861 a oggi me la sono divorata per intero, e ho fatto perfino la scarpetta (insomma, ho letto e sottolineato perfino le note). Così ricca di notizie, tabelle, statistiche, documenti, dimostra a chiunque voglia affrontarla che per riempirsi la pancia non c'è niente di meglio del consumismo e del liberismo: tutto il resto è fame. La Scarpellini cita Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, ambientato nella Lucania degli autarchici anni Trenta: «Non si fa fuoco, la sera, neppure nelle case dei ricchi, dove bastano gli avanzi del mattino, un po' di pane e formaggio, qualche oliva, e i soliti fichi secchi. Quanto ai poveri, essi mangiano pan solo, tutto l'anno, condito qualche volta con un pomodoro crudo spiaccicato con cura, o con un po' d'aglio e olio». Che allegria. E non pensiate che fosse una questione solo meridionale. A Peveragno, vicino Cuneo, due signore proprietarie di terreni e quindi non povere, «non mettevano la polenta nemmeno nel piatto, la tenevano in una mano e nell'altra tenevano l'acciuga. Mangiavano un boccone di polenta e leccavano l'acciuga. Quando la polenta era finita l'acciuga era ancora intatta».  Che poi, fateci caso, nemmeno una simile miserabile dieta poteva dirsi a km 0: in Piemonte non c'è il mare e l'acciuga da leccare proveniva come minimo dalla Liguria. A dire il vero la formuletta fasulla e di gran moda del chilometro zero oltre che ai piddini piace molto ai grillini, e la cosa non deve stupire: Grillo è un populista con numerosi tratti destrorsi ma gran parte dei suoi elettori e dei suoi eletti è antropologicamente di sinistra. Io sono un patriota e sarei favorevolissimo al chilometro zero (ovvero menù basati esclusivamente su prodotti locali) se il chilometro zero fosse praticabile: ma non lo è e, come dimostra la Scarpellini, non lo è mai stato. Nemmeno quando si coltivava la terra e si allevavano gli animali fin dentro le città, figuriamoci oggi. È una bella idea, una delle tante belle idee del Carlo Petrini visto in prima fila alle manifestazioni di Matteo Renzi. Ma è talmente bella da degradare rapidamente in utopia e quindi in impostura: a Trani, vicino al porto, c'è un ristorante «km 0» che serve risotto allo champagne. Non lo avessi visto coi miei occhi non ci crederei. Non vorrei dare la colpa anche di queste degenerazioni all'inventore di Slow Food eppure è stato lui a generare la pensata che si potesse campare di orti suburbani alla maniera dei mietitori siciliani descritti da Giovanni Verga: i poveretti mangiavano un biscotto a colazione e pane e arance a pranzo, come stessero in piedi non si sa. Il libro di Emanuela Scarpellini smonta anche l'altra balorda costruzione ideologica serpeggiante nella sinistra specie estrema: la decrescita felice, assai caldeggiata da Giovanni Favia ex grillino oggi ingroiano. È stato proprio l'aborrito consumismo a liberare gli italiani (soprattutto le italiane) da secoli di fatiche e privazioni: la vera liberazione non è stata nel 1945 quando arrivarono gli americani ma negli anni Sessanta quando in tutte le case arrivò il frigorifero. Prima la massaia era obbligata a fare la spesa tutti i santi giorni perché in casa era difficilissimo conservare il cibo: pensate solo al latte... Negli stessi anni del boom, il periodo meno sobrio, meno montiano e perciò più divertente della storia d'Italia, nelle cucine entrarono anche le cucine a gas e poi, in seguito, i forni elettrici, le lavastoviglie, i tostapane, i congelatori, i frullatori, i forni a micro-onde e mille altre diavolerie che consumano un sacco di energia solo in minima (per non dire infima) parte producibile dalle fonti alternative tanto amate da Sinistra Ecologia Libertà. Me lo sono letto bene il programma dei vendoliani: fosse per loro torneremmo alla polenta con acciuga leccata.  

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