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Pansa: Caro Bersani, pensi di aver vinto ma finirai come Occhetto

Nel 1994 la Gioiosa macchina da guerra del Pds si sentiva il trionfo in tasca. Come allora, Pierluigi è troppo sicuro...

Giulio Bucchi
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  di Giampaolo Pansa L'alba del 2013 ci presenta subito un enigma politico: chi vincerà le elezioni del 24-25 febbraio? Per ora tutti i pronostici indicano che il vincitore sarà Pier Luigi Bersani, il leader del Pd, insieme all'alleato numero uno, Nichi Vendola. Nelle loro stanze si coglie una grande sicurezza. La coppia B&V è certissima di trionfare. Qualcuno sostiene che abbiano già pronta la lista  dei ministri che comporranno il governo delle sinistre. Ma andrà davvero così? Dal 1948 a oggi, gli eredi del Pci hanno vinto soltanto due volte, nel 1996 e nel 2006. E in entrambi i casi a portarli al successo è stato Romano Prodi, un cattolico cresciuto nella Democrazia cristiana. Nel 1994 Achille Occhetto non aveva saputo battere Silvio Berlusconi. Nel 2001 la coppia Francesco Rutelli e Piero Fassino era uscita dal voto con le ossa rotte. E lo stesso era accaduto nel 2008, l'elezione del trionfo per il Cavaliere e della sconfitta di Walter Veltroni. Sono precedenti che dovrebbero allarmare Bersani. Oggi il fronte delle sinistre non ha un Prodi da offrire agli elettori. Per di più, nelle file dei democratici si insinua il ricordo di un flop storico. È quello della Gioiosa macchina da guerra capeggiata da Achille, lo sfortunato Baffo di ferro. Lunedì sul Corriere della sera è apparsa una lettera di un gruppo di «Democratici per Monti» che sostengono: «Il Pd ha rimesso indietro le lancette dell'orologio. Dov'è sostanzialmente la differenza tra il Bersani di oggi e l'Occhetto del 1994?». La campagna elettorale del Novantaquattro me la ricordo bene, per averla seguita e raccontata giorno per giorno. Se rileggo i miei appunti di allora, mi colpisce la granitica sicurezza di vincere mostrata dal Pds, il partito successore del Pci, e dai suoi alleati. Nel vertice dei capi soltanto due osavano mostrarsi dubbiosi. Veltroni  mi confidò: «Non sono mica così sicuro che ce la facciamo. La sinistra ha un male storico: quello di dividersi». Walter si riferiva alle risse esplose dentro l'alleanza per la spartizione dei collegi sicuri. Massimo D'Alema descrisse quanto stava avvenendo con una parola sola: «Una catastrofe».  Un furbetto in tv - Occhetto, invece, non aveva dubbi. In tivù si comportava da furbetto ridanciano. Il 1° febbraio 1994, quando otto tra partiti e movimenti dichiararono nato il polo progressista, Baffo di ferro lo presentò così: «Abbiamo messo a punto una gioiosa macchina da guerra contro le destre vecchie e nuove». Allora si sostenne che l'immagine bellica era del capo della Rete, Leoluca Orlando, convinto di passare dal municipio di Palermo a Palazzo Chigi. E Achille, da vero autolesionista, glie l'aveva rubata. Il 26 febbraio, al Palafiera di Roma, Occhetto aprì la campagna elettorale con un comizio duro, ma vecchio stile. L'unica novità era la sfilata di comici e di attori che sfottevano Berlusconi, ridendogli addosso. L'euforia contagiava tutti i progressisti. La vittoria ce l'avevano in mano. Nessuno credeva ai sondaggi del Cirm di Nicola Piepoli. Prevedevano il trionfo di Berlusconi, con la maggioranza assoluta alla Camera: 350 seggi e soltanto 200 ai progressisti. Il sabato 26 marzo, mentre prendevo il Pendolino per recarmi a Milano per votare, dei ferrovieri toscani mi dissero allegri: «Oh, Pansa, domani vinciamo!». Gli replicai: «No, forse perdiamo». E loro, infuriati: «Perdiamo? Ma che dici, Pansa, che dici?».  Certo, il 2013 non è il 1994. Tuttavia mi sembra che Bersani sia posseduto dalla stessa sicurezza di Occhetto. Il suo stile è diverso, più sobrio e in apparenza distaccato, come se indossi anche lui il loden reso famoso da Mario Monti. Molto meno prudenti sono i  leoncini che lo circondano. Gli avanguardisti democratici non lo sanno, ma si comportano come i loro nonni, gli apparati comunisti e socialisti degli anni Ottanta a Milano. Quelli ci ringhiavano: «Il più stupido di noi sa suonare il violino con i piedi!». Osservato dall'esterno, Bersani è infastidito da due timori. Quello minore è di veder risorgere il fantasma di Berlusconi. Quello più forte è la nascita del polo moderato voluto da Monti. Per questo ha cominciato a domandare al premier da che parte stia. Un quesito assurdo che un leader non dovrebbe mai presentare a un concorrente. Una squadra di calcio si guarderebbe bene dal chiedere alla compagine avversaria da che parte sta. Si sentirebbe rispondere: «Dalla parte della mia vittoria a spese tue». Tuttavia, è un gioco da ragazzi prevedere che di qui al 24 febbraio Bersani continuerà a scaraventare su Monti la stessa domanda. Il motivo lo ha spiegato in un passaggio della sterminata intervista concessa il 30 dicembre al direttore dell'Unità, Claudio Sardo. Vale la pena di cercarlo e leggerlo, perché svela le intenzioni bellicose del leader democratico nei confronti del Professore. Bersani si domanda: «Il suo progetto di lungo periodo è formare una forza legata al Partito popolare europeo, dunque potenzialmente antagonista ai progressisti? Se è così, che cosa dice del fatto che nel Ppe, accanto alla signora Merkel, c'è il populista Orban, senza dimenticare Berlusconi…». Per chiarezza del lettore, aggiungo che Viktor Orban è il premier ungherese. Capisco il disagio irritato di Bersani. Per lui la marcia verso la vittoria sarebbe stata assai più facile se Monti si fosse rinchiuso a Palazzo Chigi per gestire l'ordinaria amministrazione. In quel caso il leader del Pd non avrebbe avuto problemi. Se non quello di decidere se appoggiare il professore nella corsa per succedere a Giorgio Napolitano. Oppure se diventare lo sponsor numero uno di un altro candidato al Quirinale: Prodi, per due volte premier del centrosinistra. Però Monti ha deciso altrimenti. Un passo del tutto legittimo, il suo, in una democrazia parlamentare. Bersani sbaglia a trattare il Professore con la stessa alterigia un po' sfottente nei confronti di Matteo Renzi nello scontro per le primarie. Monti non è Renzi, lo dico con molto rispetto per il sindaco di Firenze. La partita della vita - In marzo il premier compirà 70 anni, è un signore orgoglioso, autoritario, cocciuto, freddo, con l'autostima dei primi della classe. E sa benissimo di star giocando l'ultima partita della propria vita, la più importante. La sua è una scommessa cruciale, ma pure molto rischiosa. Vuole sfuggire alla vecchia tenaglia fra destra e sinistra. Un'alternativa che sta perdendo significato in questo tempo drammatico di crisi globale e di nuove emergenze per l'Italia. I nostri compiti a casa non sono finiti. Lo dicono la disoccupazione che aumenta e la mancanza di crescita: due battaglie da vincere, come ci ha ricordato il premier la sera del 28 dicembre, nell'annunciare il suo nuovo impegno politico. Monti ha iniziato un cammino denso di pericoli anche per il prestigio personale. Se fallisce, ha chiuso. Nel senso che dovrà ritirarsi a studiare o accettare qualche incarico nelle istituzioni europee. Può sembrare paradossale, ma in quel caso anche un Bersani vincitore delle elezioni si troverà nei guai. Poiché non avrà nessun possibile alleato sul versante dell'innovazione sotto il segno del rigore. Non credo che il leader democratico sia tanto presuntuoso da pensare di cavarsela da solo, con l'unica compagnia ambigua di un Vendola cresciuto alla scuola di Fausto Bertinotti, un maestro parolaio pronto a ritornare sulla scena. Per questi motivi, se fossi Bersani non farei di Monti un bersaglio polemico, da sottoporre a un cecchinaggio continuo. Difenderei il mio territorio elettorale, ma senza pretendere l'impossibile. Ossia senza chiedere di fermarsi, o di arrendersi in anticipo, a quanti fanno politica in modo pulito. Purtroppo, quando si apre una contesa feroce come quella che sta iniziando, i buoni propositi finiscono nel guardaroba dei cani, si dice dalle mie parti. Tuttavia mettere il letame nel ventilatore non giova a nessuno. Può sempre capitare l'imprevisto che ti manda al tappeto. Se ne ricordi anche lei, signor segretario democratico.    

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