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Bologna, il racconto del poliziotto in piazza: "Tavoli di ferro e bomboni, ho visto la morte in faccia"

Tommaso Montesano
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«Ho visto la morte in faccia. Non mi vergogno ad ammetterlo: in tanti anni di servizio non ho mai avuto tanta paura. Neanche quando ho avuto conflitti a fuoco». Chi parla è un poliziotto dei reparti mobili. Un “celerino”, per intenderci. Che sabato scorso era a Bologna a fronteggiare una delle tanti manifestazioni per Ramy Elgaml, il 19enne egiziano morto a Milano lo scorso 24 novembre nel nome del quale le città italiane sono diventate tante pentole a pressione, pronte a esplodere. Un corteo degenerato in guerriglia urbana durante il quale è stata vandalizzata la sinagoga e feriti dieci operatori delle Forze dell’ordine. Dieci a Bologna e otto a Roma, nel corso della protesta che ha incendiato il quartiere San Lorenzo, zona est della Capitale.

Protetto dall’anonimato, il poliziotto racconta a Libero cosa è accaduto in città da sabato sera alle prime ore di domenica mattina. «Non ho mai visto una cosa del genere. Non ho mai visto tavoli di ferro, sedie, contro di me. Ho visto i miei colleghi feriti: uno con una spalla lussata, un altro con un dente rotto, un terzo che dall’alba di domenica sente un fischio nell’orecchio: un bombone gli è esploso sotto i piedi. A me hanno lanciato una bottiglia in faccia. Le immagini le avete viste tutti, ma credetemi: un conto è vederle, altro è starci in mezzo».

 

 

«IMPOSSIBILE SOTTOVALUTARE»
Sui giornali ci sono le interviste nelle quali il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, minimizza. E definisce ciò che è accaduto nella notte tra sabato e domenica «solo devastazione». «Ma quale devastazione, ma che guerriglia. Vedo una tendenza a sottovalutare quanto sta accadendo. Questa in atto è una vera e propria guerra contro di noi. E noi lo sappiamo». Due giorni dopo, il pensiero corre ancora a quanto accaduto in città: «Avevo l’adrenalina a mille... Non sono neanche riuscito a dormire dopo aver “staccato”. Per inciso: ho staccato alle quattro del mattino. Avevo preso servizio alle 18 del giorno precedente, quando era iniziato il corteo da piazza Maggiore». Difficile dimenticare: «Sono ancora, come posso dire, disturbato. Ho ammaccature ovunque. E devo continuare a lavorare, scrivere decine di carte. Perché il nostro lavoro è questo. Ma c’è un limite a tutto. Nel senso: fate qualcosa, altrimenti ci ammazzano». Quel plurale, «fate», è rivolto a tutti: politica, amministrazione, opinione pubblica. «Prima o poi ci scapperà il morto», è la sinistra previsione, condivisa da tanti operatori della sicurezza. Del resto l’escalation è sotto gli occhi di tutti: «A ogni manifestazione aumentano i casini. E l’andamento dei cortei è simile in tutte le città». Torino, Busto Arsizio, Brescia, Milano, Bologna, Roma. Ogni pretesto è buono per accendere la miccia. Ormai c’è la certezza che nulla stia avvenendo per caso, visto che per assicurare l’ordine pubblico i reparti si spostano. Ma se, come accaduto sabato, le mobilitazioni si svolgono contemporaneamente in due grandi città, la situazione si complica.

CLIMA PESANTE
«Vogliono il morto, vogliono i morti. Perché devono vendicare Ramy». Ramy, in nome del quale tutto è iniziato. «Se si fosse fermato davanti ai Carabinieri, non sarebbe accaduto nulla». Ma questa è un’altra storia. Il presente sono le piazze che ribollono. «Io vorrei andare dal capo della Polizia e dirgli: fate qualcosa, qualcosa di grosso, altrimenti ci uccideranno». Il clima è pesante. E lo testimoniano le tante testimonianze che arrivano dai reparti in questi giorni in prima linea. «Questi che abbiamo di fronte si presentano in assetto da guerra per farci male. Qui non c’è nulla di improvvisato, tanta gente non si ritrova in piazza per caso». Il ricordo è nitido: «Certo, a scendere in piazza saranno pure persone perbene, cui interessa davvero la morte di Ramy o il destino dei palestinesi, ma poi ci sono gli infiltrati».

Quelli che scatenano il caos, «con tutto ciò che riescono a procurarsi. E anche se hai manganello, casco e scudo, quando vedi tanta gente incattivita contro dite la paura arriva». L’appello a «fare qualcosa» è anche a nome dei suoi colleghi. «I miei colleghi feriti... Gli stessi ai quali ogni giorno dico: mattiamoci la divisa e andiamo. E noi andiamo ovunque: nelle piazze, negli stadi... Ora non ce la facciamo più. Io nella notte tra sabato e domenica ho avuto paura di non rivedere i miei figli. E lo stesso timore lo hanno avuto i miei colleghi».
 

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