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La Kyenge promette adozioni: 52 genitori prigionieri in Congo

Cécile Kyenge

Andrea Tempestini
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Troncato sul nascere il tentativo di riformare la legge sulla cittadinanza in Italia, il ministro per l'Integrazione, Cécile Kyenge, prende una porta in faccia anche nel suo Paese di origine. In Congo, l'oculista del governo Letta ha preso a cuore le adozioni internazionali. Sulla parola, il 4 novembre scorso, aveva ottenuto il lieto fine per 26 adozioni bloccate da un cavillo burocratico; nella realtà, la Kyenge è stata presa per il naso e quelle pratiche sono a tutt'oggi prive del timbro che consenta ai bambini di lasciare l'Africa.  Quell'unico  cavillo rimasto a tenere in sospeso il sogno di 26 famiglie italiane sarebbe dovuto essere depennato «dopo un paio di giorni», le avevano garantito. Era, secondo le autorità locali, un pro-forma per il quale sarebbe stata sufficiente una verifica tra il ministero degli Interni congolese e l'ambasciata italiana a Kinshasa. Un check di verifica, per controllare  che le due liste  con i nomi dei genitori adottivi «approvati dall'iter» combaciassero. Un'operazione di poco conto e da sbrigare in una manciata di minuti. Invece, a un mese da quella promessa, subito rimbalzata dalla Kyenge, il ministro ha semplicemente illuso molti italiani di poter vedere finalmente il figlio dormire nella cameretta rimasta da sempre vuota. Di più. Al rientro in Italia la Kyenge si è vantata di avere fatto «ripristinare tutte le pratiche di adozione che avevano già ricevuto l'approvazione definitiva delle autorità locali», queste 26, appunto. Ora, però, della situazione in stallo, preferisce non parlare più. Del resto, non è certamente una carta da giocare sotto i riflettori dei media e in un momento politico delicato. La vicenda delle adozioni in Congo era esplosa il 25 settembre scorso, data in cui tutte le pratiche erano state congelate in attesa di più rigorosi controlli. «Sette coppie», accetta di raccontare a Libero l'ambasciatore italiano a Kinshasa, Pio Mariani, «erano rimaste intrappolate da quella data spartiacque, un limite che quelle persone ignoravano. Già in città da molti giorni, in procinto di ripartire, le sette coppie avevano avuto la sfortuna di fare i biglietti aerei dopo quel confine temporale. Una banalità che, con impegno, sono riuscito a far inquadrare come una sfortunata fatalità per la quale sarebbe stato opportuno chiudere un occhio. Certo», assicura il diplomatico, «nel far ripartire quelle 14 persone con i loro bambini ha pesato l'incontro tra il ministro dell'Interno congolese e il nostro per l'integrazione». Ma quelle sette famiglie hanno toccato il suolo italiano prima che la Kyenge toccasse quello africano, all'inizio di novembre.  Accettando comunque di dare alla ministra il merito di queste adozioni andate in porto, elevando il fiasco delle 26 famiglie ancora bloccate in Congo a “un mezzo successo”, l'incontro del 4 novembre è stato invece sicuramente venduto per ciò che non era e, infatti, ancora non è stato. «Un ottimo risultato» privo del tassello finale, perciò ancora prematuro da essere definito come «successo». Tanto che quel tassello finale, un incontro veloce tra i delegati dei due Paesi, non trova posto nell'agenda delle autorità congolesi. Intanto, da oltre un mese, le 26 coppie di genitori sono ostaggio del loro sogno di tornare a casa come una famiglia. Esauste dalle condizioni di disagio in cui stanno affrontando questo calvario, quelle 52 persone continuano nonostante tutto a rimanere vicino ai figli. Le condizioni sono disumane: i nostri connazionali dormono sul pavimento di una stanza dell'orfanotrofio del capoluogo, sono senza acqua corrente, si lavano con quella piovana, sono senza elettricità e alcuni hanno terminato le scorte dei medicinali salva-vita. Anche la profilassi per la malaria è al limite dell'efficacia e, colpo di grazia, chi aveva preso un paio di settimane di ferie per andare a prendere il figlio è stato licenziato. L'assenza si sarebbe protratta oltre i  limiti, secondo alcuni datori di lavoro, e l'impiego è sfumato. Lei, Cécile Kyenge lo sa, sa tutto. L'ambasciatore italiano a Kinshasa tiene informato il ministero in Italia, riversa sul suo referente lo sconforto per il silenzio delle autorità locali. «Scrivo e telefono tutti i giorni ai vertici congolesi», si sfoga Mariani, «eppure non ottengo risposta. Adesso ho interessato direttamente il ministro dell'Interno e il direttore generale della direzione generale dell'immigrazione», ma il presidente è in viaggio da due settimane e nei prossimi giorni si sposterà in Europa. Al seguito posta con sé i vertici del governo, perciò non si prevedono tempi brevi. Dal ministero italiano dell'Integrazione, invece, Mariani riceve continue rassicurazioni, «ce ne stiamo occupando», gli ripetono, ma i segnali per adesso sono invisibili.    Del resto il diplomatico non se la sente di dare responsabilità a nessuno. Semmai addita come incaute le associazioni che, dopo il blocco del 25 settembre, hanno messo in viaggio le coppie di genitori adottivi senza verificare se l'ambasciata a Kinshasa avesse risolto quel cavillo. «Sembrava roba di un paio di giorni», ripete Mariani, «invece è passato un mese. Certo», spiega, «è un momento delicato per il Congo. Da due settimane il presidente è nell'est del Paese, dove è stata vinta la guerra contro i ribelli dell'M23, a riprendere contatto con il suo popolo. E poi ancora viaggi, attraverso le sue terre e fino a Parigi». La Kyenge, però, conosceva bene la situazione del Congo. Tant'è che, arrivata all'incontro del mese scorso con le massime autorità del posto, si era congratulata per il successo riscosso sul campo di battaglia. E' la sua terra. Lei, più di altri, sapeva che i giorni seguenti sarebbero stati frenetici per il governo congolese. Eppure si è fidata di quella parola, «tra un paio di giorni faremo il check con il vostro ambasciatore e daremo il via libera alle adozioni già andate a buon fine». Parole che, in quella situazione, forse meritavano più prudenza. Forse la Kyenge avrebbe dovuto chiedere di controllare le liste dei nomi quel giorno stesso, avendo la possibilità di sedere di fronte ai ministri dell'Interno e della Famiglia. Invece si è fidata di una promessa che non aveva i presupposti per essere affidabile ed è tornata in Italia. Ha annunciato il buon esito del viaggio e ora le sta cadendo addosso il dolore di quei 52 genitori rimasti a vegliare i figli bloccati in Congo. di Roberta Catania

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