L'Italia, una Repubblica fondata sulla burocrazia
Aveva ragione Kafka: i ceppi di un'umanità tormentata sono gli inferni di carta bollata. L'apice di questo distillato di verità, l'ho avuto alla nascita del mio primo figlio: nel buio del reparto ginecologico, tra le urla delle puerpere e il vagito di quella nuova umanità, l'ostetrica mi teneva il piccolo in ostaggio. Fino a quando, almeno, io non avessi adempiuto alle almeno 5 certificazioni che informano lo Stato della tua esistenza: il certificato di nascita (con tanto di ora minuti), il codice fiscale, la scelta del pediatra, l'attestazione della scelta di entrambi i genitori del nome del piccolo “presso la sede dell'ufficio di Stato Civile del Comune presso l'ospedale”. Tutto in triplice copia (ma in ospedale non ci sono fotocopie). Come in un film di Fantozzi, o nella scena della bolgia impiegatizia delle Dodici fatiche di Asterix perso nella ricerca del “lasciapassare A38”, ero talmente disperato da corrompere l'impiegato affinché corrompesse l'ostetrica e mi mollasse il pupo prima che il pupo s' iscrivesse alle elementari. Ma questo è solo un tragico esempio. La burocrazia italiana è così: un sentiero per gli inferi lastricato da norme, adempimenti, termini e scadenze spesso inutili. Che pesano allo Stato 3,7 miliardi di euro solo nel 2019, per un totale di costo della gestione -per esempio- delle aziende verso la Pubblica amministrazione di 57 miliardi: ossia la perdita di 3 punti di Pil e 190 giornate di lavoro per uscirne vivi. Lo racconta bene Alfonso Celotto nel suo pamphlet E' nato prima l'uomo o la carta bollata (Rai Libri), in cui si lancia nella prima vera, impietosa analisi tecnica del grande Moloch italiano. Celotto spiega che la burocrazia intesa come “l'insieme di apparati e di persone al quale è affidata, a diversi livelli, l'amministrazione di uno Stato o anche di enti non statali” era nata dalla buona intenzione di semplificare il rapporto tra cittadino e le leggi. La disamina di Celotto si dispiega in un irresistibile crescendo letterario: cita Aristotele (impegnato in immaginari ricorsi in coda dinanzi a pubblici impiegati) e il Codice Napoleonico nato per sfrangiare la variegata pandettistica dell'impero; il racconto Funes el memorisio di Borges e Ennio Flaiano; la democrazia della raccomandazione del Manuale Cencelli e Max Weber, con le sue teorie sulla burocratizzazione universale e sul modello perfetto di organizzazione. Cita, perfino, il console Cecilio Metello il quale, già nel 251 ac, progettava il Ponte sullo Stretto; ma dopo due millenni di tira e molla tra la Dc e Berlusconi fu il governo Monti a disilluderlo. Il libro evidenzia quanto la burocrazia sia una iattura tentacolare. Prendete la giustizia oggi martoriata dalla riforma Bonafede: “Eppure oggi, in Italia, stando ai dati 2018 del Ministero della giustizia, abbiamo cinque milioni di processi pendenti (sì, avete capito bene, cinque milioni, in pratica uno ogni sei abitanti: cioè 1.520.599 processi penali. E 3.587.589 processi civili, più 238.726 processi amministrativi), gestiti da meno di diecimila magistrati”, scrive Celotto. Aggiungendo che “la ragionevole durata del processo2 sancita dall'art.111 della Costituzione, che in realtà verrebbe codificata dalla Legge Pinto 89/2001 (“un totale di non più di sei anni”) aggiunge burocrazia a burocrazia: “In caso di sforamento, si ha diritto a un risarcimento economico del danno. Pensate che dieci anni dopo la legge Pinto, l'Italia aveva ancora oltre ottomila ricorsi per eccessiva durata dei processi davanti alla CEDU, di cui quattromila per ritardi nel pagamento degli indennizzi sul ritardo dei processi. Assurdo, no?”. Assurdissimo. Come è assurda la durata di un procedimento amministrativo: “la legge ha provato a disciplinarlo, con l'art. 2 della legge n. 241 del 1990, che ha posto un termine generale di conclusione dei procedimenti amministrativi entro trenta giorni. Ma ha anche consentito alle pubbliche amministrazioni di determinare «per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui esso deve concludersi». Laddove si scopre, in burocratese, che il condono edilizio è “una pratica “in istruttoria” da trentacinque anni e che a trentacinque anni dal primo condono ci sono ancora 4.263.897 domande da evadere”. O che la nuova normativa sull'omicidio stradale del ddl n. 859 del 2013 è identica, nell'applicazione della pena a quella precedente sull'omicidio colposo (quanta carte, e articoli e fatica sprecate). O che le tasse sono un ginepraio da cui è arduo districarsi:” IRPEF, IVA, Rifiuti, Bollo auto, marche da bollo… e aggiungendo le altre dieci imposte principali (tra cui IRES, IRAP, IMU e TASI) si arriva quasi al 90 per cento, ma resta fuori un 10 per cento che equivale a centinaia di micro-tributi. Già, perché in Italia le tasse sono più di cento”. Celotto, nel raccontare la surrealtà dell'amministrazione pubblica, evoca anche aneddoti divertenti, come il mazzo di fiori da 22 euro comprato dal sindaco di Pesaro Matteo Ricci per una giovane atletica passato da cinque delibere e dall'intervento di tre enti; e la genesi del magico mondo delle sigle (“Vado all'URP per chiedere il CUP per consegnare il Durc al RUP”) e degli enti inutili e dei ministeri inutili creati per sopprimere la pletora degli enti inutili (circa 600, tra cui l'EGELI che doveva gestire i beni ebraici espropriati dalle leggi razziali…). E non si salvano neppure le semplificazioni in teoria dettate dalla rivoluzione digitale. Insomma. In 150 anni di riforme inattuale la burocrazia rimane ancora il modo più semplice per piazzare i parenti, le amanti e gli amici degli amici -stanchi, senza stimoli, inefficienti per natura- nel grande ventre dello Stato: straordinaria carne da macello elettorale che instilla un'unica, rocciosa certezza. Che, come scrive Celotto citando Prezzolini, “In Italia non si può ottenere nulla per le vie legali, nemmeno le cose legali. Anche queste si hanno per via illecita: favore, raccomandazione, pressione, ricatto eccetera”. E, comunque, rimane sempre la tristezza infinita di spiegare a mio figlio che la sua vita è cominciata da una marca da bollo…. di Francesco Specchia