Pietro Genovese, vietato dire che "è un drogato": assalto a Repubblica per l'uso della lingua italiana
Eccola là la scure del politicamente corretto che si abbatte su chi di solito ne è il paladino. Eccola là l' indignazione pubblica per un titolo di giornale che descrive i fatti ma che, al tempo in cui non si possono chiamare le cose col proprio nome, diventa oggetto di scandalo. Leggi anche: Gaia e Camilla, parla il testimone chiave La vicenda è quella delle due sedicenni romane, Gaia e Camilla, travolte e uccise due giorni fa dall' auto di un ventenne, Pietro Genovese, figlio del regista Paolo. Ieri il quotidiano Repubblica osava titolare «Travolte a 16 anni. "Autista drogato"»: la seconda parte del titolo non faceva che sintetizzare i risultati del test per rilevare sostanze stupefacenti, alle quali l' investitore delle due ragazze era risultato positivo. Eppure su Twitter si scatenava l' inferno. Dopo un cinguettio di Selvaggia Lucarelli che parlava di «un titolo spietato» che «ammazza anche chi è sopravvissuto», molti utenti le davano ragione: alcuni definivano il titolo «avvilente» o «una caduta di stile», altri attaccavano Repubblica accusando il titolista di essere drogato, sostenendo che «è più serio Topolino» o che sembrava «come se fosse Libero» (per noi è un complimento, perché vuol dire che il nostro è un modello di giornalismo aderente ai fatti); e c' era poi chi entrava nel merito, facendo dei distinguo che suonavano come arrampicate sugli specchi: «non negativo alle droghe non significa drogato» spiegava uno, un altro diceva di non capire «l' uso della parola "drogato" invece della locuzione "positivo ai test per rilevare droghe"», un' altra si chiedeva «se basta una canna per assurgere a drogati». L'USO DELLA LINGUA Nel commentare questi strascichi social non si può non partire dal dramma a monte, quello che ha sconvolto tre famiglie, in primo luogo i parenti delle due ragazze uccise e quindi quella del giovane investitore. Tutte le parole che sono state scritte e tutte quelle che noi scriveremo sono rumore di sottofondo in confronto al silenzio doloroso, e da rispettare, di parenti di vittime e responsabile dell' incidente. Fatta questa premessa doverosa, l' impressione è che chi condanna Repubblica per quel titolo non abbia gli strumenti per capire la differenza tra uso di una parola come sostantivo e uso come aggettivo. Un conto è infatti dire che «quell' autista è un drogato», il che vuol dire che l' essere drogato è una condizione per lui duratura, divenuta permanente, quasi ontologica, o comunque identificativa della sua persona. Altra cosa è dire che «quell' autista è drogato», il che significa che il guidatore in quello specifico momento è sotto l' effetto di sostanze stupefacenti. E questo è un fatto indubitabile per Pietro Genovese, dal momento che egli è risultato positivo al test sulla droga (oltreché al test sull' alcool: aveva un tasso alcolemico di 1,4 grammi per litro). Beninteso: la condizione puntuale non rende quella persona un drogato in senso assoluto. Né Genovese diventa tale, in quanto già in passato era stato trovato due volte in possesso di droga. Gli hater che travolgono Repubblica di insulti non si rendono conto poi di un altro particolare: i titoli dei giornali hanno, per ragioni di spazio e di efficacia, l' obbligo della brevità. Non è concepibile scrivere qualcosa tipo «non negativo al test sulle sostanze stupefacenti»: posto che quanto si scrive sia vero, si preferisce sempre l' espressione più breve. Qualcuno potrebbe sorprendersi della difesa che Libero fa di un giornale così distante da lui: ma a noi interessa la questione di metodo e di contenuto, al di là del nome della testata. Urge schierarsi infatti a difesa del diritto di titolare in maniera forte, diretta, senza i bavagli del politicamente corretto, ogni volta che quell' espressione corrisponda a verità. Bisognerebbe piuttosto scandalizzarsi per il coro quasi unanime di riprovazione per il titolo, e chiedersi: ci sarebbe stata la stessa levata di scudi da parte dell' opinione pubblica se il giovane fosse stato un comune cittadino, e non il figlio di un personaggio famoso? Non è che i tabù del politicamente corretto e la connessa censura morale e linguistica si acuiscono quando si rischiano di colpire figure sensibili? Ce lo domandiamo soltanto: ma se fosse stato per queste ragioni, sarebbe stato doppiamente ipocrita scegliere di non scrivere quella parola, «drogato». di Gianluca Veneziani