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Mediaset, i giudici: decideva anche da premier

Lucia Esposito
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La gestione dei diritti televisivi e cinematografici faceva capo a Silvio Berlusconi. Anche quando era premier. E' questo, in sostanza, il concetto espresso dai giudici della Corte d'Appello di Milano nelle motivazioni, depositate oggi giovedì 23 maggio, della sentenza con la quale hanno confermato la condanna a 4 anni di carcere e 5 di interdizione dai pubblici uffici per il leader del Pdl con l'accusa di frode fiscale.  Riunione strategica - "Era assolutamente ovvio - scrivono - che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse una questione strategica e quindi fosse di interesse della proprietà, di una proprietà che, appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali, pur abbandonando l'operatività giornaliera". I giudici, presieduti da Alessandra Galli, sottolineano che "almeno fino al 1998 e, quindi, fino a quando ai vertici della gestione dell'acquisto dei diritti vi era stato Bernasconi, vi erano state anche le riunioni per decidere le strategie del gruppo, riunioni con il proprietario del gruppo, con Berlusconi".  "Ristretta cerchia" - E ancora le toghe nelle motivazioni al loro verdetto spiegano che ad agire "era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo ma che erano vicine, tanto da frequentarlo tutti (da Bernasconi ad Agrama, da Cuomo a Lorenzano) personalmente, al sostanziale proprietario (rimasto certamente tale in tutti quegli anni) del medesimo, l'odierno imputato Berlusconi. Un imputato - continuano - un imprenditore che pertanto avrebbe dovuto essere così sprovveduto da non avvedersi del fatto che avrebbe potuto notevolmente ridurre il budget di quello che era il maggior costo per le sue aziende e che tutti questi personaggi, che a lui facevano diretto riferimento, non solo gli occultavano tale fondamentale opportunità ma che, su questo, lucravano ingenti somme, sostanzialmente a lui, oltre che a Mediaset, sottraendole".  Zero attenuanti - Un sistema “portato avanti per molti anni”, “proseguito nonostante i ruoli pubblici assunti e condotto in posizione di assoluto vertice”. Secondo i giudici il gruppo Fininvest, e più precisamente il suo fondatore, "con l'aiuto tecnico dell'avvocato Mills aveva costituito una galassia di società estere, alcune delle quali occulte, e che occulte dovevano restare anche perché parte di tali fondi era stata utilizzata per scopi illeciti: dal finanziamento occulto a uomini politici, alla corruttela degli inquirenti, alla corresponsione di somme a teste reticenti". “La pena stabilita in prime cure - proseguono - è del tutto proporzionata alla gravità materiale dell'addebito e all'intensità   del dolo dimostrato”. Per le toghe di Milano "è ben chiara l'impossibilità di concedere le attenuanti generiche". Il fine della frode, secondo i magistrati milanesi, era "realizzare un'imponente evasione fiscale e consentire la fuoriuscita di denaro dal patrimonio Finivest/Mediaset a beneficio di Berlusconi". La replica - I legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in una nota hanno replicato sottolineando come "la motivazione della Corte di Cassazione in merito alla richiesta di spostamento del processo a Brescia non appare in alcun modo condivisibile e i successivi accadimenti, in particolare la decisione assunta dalla Corte di Appello di Milano, dimostrano la fondatezza delle ragioni del presidente Berlusconi". Quindi i due parlamentari del Pdl aggiungono che "si deve sottolineare come nella motivazione depositata oggi le argomentazioni utilizzate siano del tutto erronee e sconnesse rispetto alla realtà fattuale e processuale". Ghedini e Longo annunciano che le motivazioni "saranno oggetto di impugnazione nella certezza di una ben diversa decisione nel prosieguo del processo che riconoscerà l'insussistenza del fatto e l'estraneità del presidente Berlusconi".

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