Giangrande, parla Martina: "Grazie Libero per quello che stai facendo per mio papà"
La figlia sempre accanto a Giuseppe: "Lo seguirò ovunque, la mia vita da ragazza è finita"
di Annamaria Piacentini «Ringrazio Libero per tutto ciò che sta facendo per noi», così mi dice Martina, la figlia del brigadiere Giuseppe Giangrande, ferito gravemente al collo domenica 28 aprile davanti a Palazzo Chigi. «E ringrazio lei che si sta interessando a me» aggiunge, accompagnando la frase con un timido sorriso. Il nostro giornale, sempre in prima linea quando si parla di forze dell'ordine, ha già raccolto centinaia di donazioni in favore della famiglia Giangrande, e molte altre ne seguiranno. Perché l'Italia non ha la memoria corta, ed è certo migliore di come spesso la vogliono far apparire. «La speranza è l'ultima a morire - aggiunge Martina - e spero che in futuro mio padre possa recuperare e ristabilirsi completamente». La raccolta fondi di Libero per Giuseppe e Martina Giangrande Per le vostre donazioni: Editoriale Libero srl, causale: Libero pro brigadiere ferito, IBAN: IT39 A 03069 09451 100000000890 A 23 anni, dopo aver perso la mamma soltanto due mesi fa, Martina si trova a vivere qualcosa di più grande di lei: quella paura che ti sconvolge l'anima. La incontro per pochi minuti, insieme con la psicologa dell'Arma che la sta aiutando a superare questo difficile momento. È bella Martina, ha i capelli lunghi e lo sguardo smarrito. Parla a voce bassa. È timida, educata e gentile. L'abbraccio e mi commuovo. So per esperienza personale che cosa significa attendere un bollettino medico, e prim'ancora che cosa vuol dire passare lunghe notti in attesa che il tuo compagno, dopo un'operazione di servizio, torni a casa. Martina improvvisamente diventa un'altra figlia da proteggere e amare, da difendere quando tutto sembra diventare buio. «Hai un fidanzato?», le chiedo. «Sì - mi risponde -, anche lui mi è vicino». «Chiamaci quando vuoi - aggiungo, facendomi rappresentante anche dei lettori di Libero - anche noi non ti abbandoneremo». E invece come sta il suo papà, Giuseppe Giangrande? Doveva già raggiungere il Centro di Riabilitazione di Imola, clinica dove proseguirà le cure, ma la pioggia battente che ha svegliato la Capitale ha fatto rimandare a oggi la sua partenza: «È meglio non rischiare con un tempo così», sottolineano in ospedale. Ancora non riesce a muoversi, ma un certo ottimismo stempera le inevitabili insicurezze. Alla mini conferenza stampa organizzata subito dopo al Policlinico Umberto I, Martina giunge insieme allo zio Pietro, il fratello del padre. Che annuncia: «In tutti questi giorni Giuseppe è sempre stato vigile, nonostante fosse sedato. Si preoccupava soltanto di noi e mai di lui. Ci ha chiesto: dove alloggiate? Vi trattano bene? Chiediamo scusa a tutti i giornalisti che ci hanno chiesto interviste, ma non vogliamo diventare protagonisti, salire sulla ribalta. L'importante è che le sue condizioni stiano migliorando». E poi un pensiero per il collega di Giuseppe: «Siamo vicini anche al carabiniere Francesco Negri, ferito nello stesso agguato». Anche Martina, dice poche parole. È comprensibile: da quella maledetta domenica, quando il padre dal Battaglione Tuscania (la sua casa è a Prato) è stato inviato in missione a Roma, ha vissuto tutte le paure più terribili: «La mia vita da ragazza non c'è più - confessa con gli occhi lucidi - ma non m'importa. Ora seguirò mio padre ovunque vada. Non posso lasciarlo. E non voglio farlo. Solo questo conta per me. Gli ho fatto vedere lo striscione che hanno messo sull'entrata principale dell'ospedale, «Giuseppe uno di noi», naturalmente in misura ridotta, su un cartoncino. Si è commosso, gli è piaciuto. Non ci credeva». L'hanno fatto due carabinieri in pensione, quello striscione. E poi Martina cita anche il gruppo di supporto aperto su Facebook, dove gli iscritti hanno raggiunto quota 6000. D'altronde è vero quel che si dice: se fai parte della famiglia dell'Arma, anche le donne portano gli Alamari cuciti sulla pelle. Accontentandosi di silenzi e assenze. Perché Carabinieri si nasce e poi si diventa, rischiando la vita per poche migliaia di euro al mese. «Obbedir tacendo e tacendo morir», dice il loro motto. Per fortuna a Giuseppe Giangrande non è andata così. Dovrà lottare ancora, ma se tutto andrà bene potrà tornare a casa tra la riconoscenza di tutti.