"Salvate mio figlio e l'amicaergastolani innocenti in India"
Tomaso ed Elisabetta in cella da tre anni, accusati di aver ucciso il fidanzato di lei durante una vacanza
di Alessandro Dell'Orto Tomaso Bruno di Albenga ed Elisabetta Boncompagni di Torino hanno 32 e 41 anni e sono rinchiusi dal 2010 nella prigione di Varanasi, in India. Ergastolo. Sono accusati di aver ucciso un altro ragazzo italiano (di Oristano), Francesco Montis, che aveva 30 anni ed era in viaggio con loro. Tomaso ed Elisabetta hanno sempre - e da subito - urlato la propria innocenza spiegando che Francesco è morto per un malore. Non gli hanno creduto. E al termine di un processo stravagante e insolitamente lungo (150 udienze) sono stati condannati al carcere a vita. Il ricorso in appello è stato rigettato, ma il prossimo 3 settembre ci sarà la revisione del procedimento. Luigi Bruno, padre di Tomaso, ci racconta la drammatica storia di suo figlio e di Elisabetta Boncompagni. Luigi Bruno, da quanto tempo non vede suo figlio Tomaso? «Pochi giorni. Sono appena tornato dall'India e mia moglie Marina è ancora là. Cerchiamo di stargli vicino il più possibile. Siamo sereni perché sappiamo che è estraneo a tutto, ma sappiamo anche che ha bisogno di sostegno». Quante volte siete andati in India in questi tre anni? «Una ventina di volte. Quando siamo a Varanasi riusciamo vedere Tomaso ogni due o tre giorni per un'ora e mezza. Il telefono non lo può usare. Dall'Italia comunichiamo attraverso mail, grazie a un amico che stampa le lettere e le porta in prigione». Viaggi, avvocati, hotel. Quanto vi è costata, finora, questa vicenda? «Trecentocinquantamila euro di avvocati - che abbiamo diviso con la famiglia di Elisabetta -, più 800 euro di biglietto aereo per ogni viaggio. Ci siamo giocati i risparmi di una vita. E la prospettiva di una pensione serena». Già. Che lavoro fate? «Io sono agente assicurativo, mia moglie gestisce una società immobiliare». Avete altri figli? «Camilla ha 23 anni e studia infermieristica a Bologna». Bruno, raccontiamo la storia di Tomaso. E iniziamo dalla vacanza in India, dicembre 2009. «Il sogno di una vita per un ragazzo come lui, amante dei viaggi, girovago. L'occasione è che un loro amico apre un locale a Goa. Partono in una decina, quasi tutti si sono conosciuti a Londra, dove mio figlio lavorava in un pub». Dopo pochi giorni il gruppo si divide. «Chi va a sud, chi si ferma a Goa. Tomaso progetta di andare a Delhi per conto proprio e poi tornare a casa. Ma Elisabetta gli chiede di accompagnare lei e il suo fidanzato Francesco a Varanasi, perché il ragazzo non sta bene». Cosa ha? «È pieno di acciacchi. Un'ernia al disco gli impedisce di camminare a lungo e lo costringe a imbottirsi di antinfiammatori per non sentire dolore. Poi ha una brutta tosse convulsa, tanto forte che per riuscire a dormire deve prendere tranquillanti ». I tre dunque si dirigono a Varanasi. «Per risparmiare affittano una tripla all'Hotel Buddha. Il pomeriggio del 3 febbraio i due fidanzati escono, mio figlio no. Non sa cosa abbiano fatto. La notte, invece, Tomaso ed Elisabetta vanno a vedere l'alba, il sunrise, tipica tappa per turisti. Francesco non se la sente, non sta bene e resta in albergo. Quando tornano, lo trovano agonizzante. Chiamano la reception, chiedono un'ambulanza. Arriva solo un taxi». E che succede? «Utilizzano una coperta come barella, caricano Francesco sull'auto e corrono all'ospedale. Ma non c'è niente da fare. All'arrivo viene constato il decesso». Domanda scomoda, ma inevitabile. I ragazzi facevano uso di droga? «Guardi, al processo non si è mai parlato di sostanze stupefacenti, negli atti non c'è nulla del genere. È stato accennato qualcosa solo dalle “Iene” dopo un intervista a Tomaso ed Elisabetta. E i nostri rapporti con la famiglia di Francesco, da quel momento, si sono interrotti». Torniamo alla morte di Francesco. «Tomaso telefona subito all'ambasciata per conoscere le procedure e capire che fare. E per aiutarli li raggiunge una terza persona. Una certa Alessandra, amica di Elisabetta e del suo fidanzato». Testimonianza importante. «Già, peccato si sia sempre rifiutata di parlare». Come? Perché? «L'ho raggiunta a Londra, ci siamo incontrati. Ha detto che era troppo scossa, non se la sentiva. Spero non dorma la notte per il rimorso di non averci aiutati, glielo auguro vivamente». Bruno, parliamo di lei. Quando viene a conoscenza di quanto è accaduto a Varanasi? «Al rientro in hotel, dopo essere stato in ospedale, mio figlio mi telefona. Dice che sono piantonati in ospedale, non possono collegarsi a internet ma hanno il telefono. Contatto l'ambasciata e su sua indicazione prendo un avvocato. Nel frattempo viene fatta un'autopsia a Francesco. La esegue un oculista». Scusi, in che senso? «Quello che ha capito. Noi non abbiamo la possibilità di nominare un consulente di parte: il responso è che la morte sarebbe avvenuta per asfissia e strangolamento. Chiediamo una nuova autopsia. “Impossibile - dicono - il ragazzo è stato cremato perché lo stavano mangiando i topi”». Nel frattempo Tomaso ed Elisabetta sono sempre in albergo? «Fino al 7 febbraio, quando vengono arrestati con l'accusa di omicidio». Movente? «Una relazione tra i due alle spalle di Francesco. Per puntellare l'accusa gli inquirenti trovano un testimone: è un cameriere che dice di aver visto Francesco sempre triste e mio figlio che amoreggiava con Elisabetta». Lei quando va in India? «Il tempo di ottenere il visto, e sia io che mia moglie ci precipitiamo a Varanasi. All'ambasciata ci dicono di stare tranquilli, che servono 90 giorni di attesa per il processo, che saranno liberati con una cauzione e si risolverà tutto in fretta». Non va così, vero? «Continui rinvii, oltre un anno di attesa e poi la condanna dopo 150 udienze. Ergastolo. Assurdo. Perché nel frattempo tutti i testimoni cambiano versione rispetto all'inizio e smontano la tesi della tresca. Il cameriere spiega che non aveva visto nulla di persona, ma solo sentito dire. L'oculista non è più sicuro dell'esito dell'autopsia e dello strangolamento». Secondo lei il ragazzo come è morto? «Un nostro consulente ipotizza overdose di farmaci e tranquillanti». Bruno, ma perché questo accanimento verso Tomaso ed Elisabetta? «Me lo sono chiesto migliaia di volte. E mi sono dato una sola risposta: la necessità di un caso clamoroso per fare carriera. E tutti i protagonisti l'hanno fatta, dal Pubblico Ministero al capo della polizia». Mai tentato di corromperli? «Ci ho provato, ma senza riuscirci». Pensare a italiani in carcere in India significa pensare anche ai marò. «Questa vicenda è diversa dalla nostra, spero tanto che quei militari tornino a casa. Certo, ci sono stati momenti di tensione tra India e Italia. E li ho vissuti con grande apprensione». Curiosità: come sono invece i rapporti tra Tomaso ed Elisabetta? E tra voi e la sua famiglia? «Ottimi. I ragazzi si vedono ogni sabato in carcere. Noi finora abbiamo affrontato tutte le difficoltà insieme ai genitori di lei. Il padre è venuto due volte in India con noi, anche se è anziano». Parliamo di suo figlio. Come è la giornata tipo in prigione? «La sveglia è alle 6, poi c'è la conta. Tomaso torna a dormire fino alle 7.30, quando arriva la colazione. Poi la cura del corpo e la lettura dei giornali. Anche se in ritardo di molti giorni riceve la Gazzetta dello sport: è grande tifoso interista. Il resto della giornata lo passa soprattutto leggendo libri e imparando lingue straniere». È rispettato? «In quegli ambienti se rispetti gli altri sei rispettato. Prima, dagli altri detenuti, veniva considerato un ospite. Ora un fratello». Luigi Bruno, risposta secca. Ha mai dubitato anche solo un momento di suo figlio? «Mai. Lo conosco troppo bene. È innocente». Ultimissima. Lei, invece, ha qualche rammarico? «Quello di non aver fatto tutto il possibile. All'inizio avrei dovuto pretendere indagini più mirate, ma mi sono fidato dei consigli dell'ambasciata che, in buona fede, ha sottovalutato la situazione».