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Nell'ora d'aria scopronodi essere padre e figlio

Dopo trentasette anni i due, entrambi detenuti nel carcere di Mombello, si incontrano e ricostruiscono le loro vite

Nicoletta Orlandi Posti
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Di Giordano Tedoldi  Difficile dire se sia più forte la gioia o il dolore, nel conoscere il proprio figlio, e il proprio padre, in carcere. La storia di Vincenzo, 61 anni, detenuto nel carcere di Canton Mombello, e del figlio che non sapeva di avere, anch'egli finito nello stesso luogo di pena, è stata raccolta dal giornale di Brescia. Una vicenda amara, che sembra raccontare che dal proprio destino non si sfugge, che non c'è riscatto possibile, anzi, i propri errori vengono raccolti dai figli, gli stessi guai passano in eredità a loro.  Vincenzo e il figlio si incontrano un giorno durante l'ora d'aria e si guardano con quella misteriosa sensazione di trovarsi di fronte a un altro sé, a un doppio. Sensazione strana in un carcere, dove in celle disumane in cui trovano posto sei persone, quando dovrebbero starcene due, gli altri sono più spesso un fastidio, una presenza asfissiante, l'ennesimo corpo schiacciato in uno spazio che scoppia. Saranno anche vere le leggende sulla solidarietà tra detenuti, ma quando il sovraffollamento raggiunge simili livelli si farebbe volentieri a meno di solidarizzare.  Ma Vincenzo intuisce che quel ragazzo non è un detenuto come gli altri, non è un altro avversario con cui contendere centimetri di vita, e chiede informazioni al compagno di cella del ragazzo. Quello gli rivela che la madre è una donna di Salò che Vincenzo aveva conosciuto molti anni prima.  Nell'incontro successivo, Vincenzo racconta al ragazzo di aver conosciuto sua madre, «portale i miei saluti», gli dice. Il ragazzo scrive alla madre, le racconta di quel signore che dice di averla conosciuta. La donna risponde direttamente a Vincenzo: «Quel ragazzo che hai conosciuto in carcere è tuo figlio. Ha 37 anni». Altro che ragazzo, un uomo. Vincenzo è come stordito dalla notizia: è già padre e nonno. «L'ho riguardato in faccia e ho visto i miei stessi occhi. E così gli ho detto tutto». Il riconoscimento è commovente ma amaro: come si fa a sopportare di scoprire un figlio, non un ragazzino sventato, ma un uomo di 37 anni, nel carcere in cui si è rinchiusi? E il figlio, riconoscendo il padre in quel detenuto alle soglie della vecchiaia, non avrà pensato che per certe persone non c'è futuro? Che era scritto che anche lui facesse la fine di suo padre, un perdente figlio di un altro perdente?  Ma in carcere pensare è solo una perdita di tempo, bisogna aiutarsi, e aiutandosi, in cella, i due hanno costruito il loro rapporto di padre e figlio. Poi il figlio, almeno lui, è uscito, ha ottenuto i domiciliari, e Vincenzo è rimasto dentro, tenendo vivo quel legame bello e triste al tempo stesso.  Ora quando parla del figlio Vincenzo piange, perché è come se rivedesse in lui i suoi stessi errori, l'implacabile ripetersi di uno sbaglio che di generazione in generazione non si riesce a evitare. Se almeno il figlio raddrizzasse la sua vita, allora sì, sarebbe un bel riscatto. Allora sì, che valeva la pena di guardarsi e riguardarsi con un estraneo nell'ora d'aria, per poi sentirsi dire: «È tuo figlio».

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