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Jihad in Italia, i terroristi della porta accanto: viaggi, spese, barbe e social, così trovano i sospetti

Giulio Bucchi
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Ieri, quando la copia di Libero è arrivata sulla scrivania degli inquirenti, più di uno è sobbalzato sulla sedia. Infatti in prima pagina il nostro quotidiano svelava, indirettamente ma neppure troppo, il cuore di una delicatissima inchiesta in corso presso la procura di Venezia. L'articolo di Cristiana Lodi iniziava così: «Sotto Natale l'imbianchino Ismar Mesinovic (…) era filato dal Veneto direttamente in Siria pronto a combattere contro il regime di Assad. A gennaio, mentre guerrigliava in nome di Allah e della Guerra santa, è morto con il figlio al seguito». E proprio da Mesinovic parte l'indagine della sezione antiterrorismo del capoluogo lagunare, condotta dal pm Walter Ignazitto e dal Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri del generale Mario Parente. In questo momento l'attenzione è rivolta alla cerchia di contatti che ha permesso il reclutamento e la partenza del 36enne Mesinovic verso l'inferno siriano. Una decina di personaggi provenienti dalla ex Jugoslavia e in particolare dalla Bosnia Erzegovina e dal Kosovo. Almeno cinque sono indagati per associazione con finalità di terrorismo anche internazionale (articolo 270 bis). Mesinovic risiedeva a Longarone (Belluno) dal 2009, il padre era morto negli anni 90 durante la guerra di Bosnia. La biografia tipo dei nuovi terroristi cresciuti in Veneto, una trentina secondo gli ultimi dati. In Italia aveva sposato una donna cubana e aveva avuto un bambino. Una vita normale, sino a quando è stato lasciato dalla moglie e nella sua testa è scattato qualcosa. Si è trasformato in quello che gli esperti chiamano terrorista «homegrown», uno jihadista cresciuto in casa, sedotto dai messaggi di Al Qaeda e dell'Isis. Mesinovic frequentava i centri islamici di Ponte alle Alpi (Belluno) e di Gardolo (Trento), molto attivo sulla questione siriana. L'imam di Gardolo si chiama A. B. ed è un medico dell'ambulatorio di un paese alle porte di Trento. Ismar avrebbe conosciuto a Pordenone anche predicatori radicali itineranti come Bilal Bosnic. La questione che interessa di più agli investigatori non è tanto se ci siano altri fanatici pronti a partire per i diversi teatri di guerra, ma se esistano reduci pronti a mettere a frutto in territorio italiano l'esperienza bellica. Altro capitolo delicato è quello riguardante gli aspiranti guerriglieri che vogliono scatenare la lotta armata nel nostro Paese. In principio fu il libico Mohamed Game, che il 12 ottobre 2009 a Milano tentò di far esplodere un ordigno artigianale davanti a una caserma dell'esercito: alla fine a farsi male fu lui solo. In una recente analisi del fenomeno jihadista della fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) presieduta dal generale Leonardo Tricarico, ex consigliere militare della presidenza del Consiglio, la parabola di Game viene definita «tipica di un percorso di auto-radicalizzazione, la cui rapida progressione era stata agevolata da navigazioni in internet sempre più intense ed ossessive, e la cui deriva violenta era stata alimentata da uno stato di profonda frustrazione personale». Per gli analisti della Icsa «il terrorista “homegrown” è molto spesso un immigrato di seconda o addirittura di terza generazione che, a seguito di vicende personali o sociali, viene indotto a ricercare le proprie origini nell'estremismo ideologico e nel messaggio qaedista». Per contrastare questo fenomeno, due anni fa i carabinieri del Ros hanno messo in campo il progetto «Jweb», che ha preso spunto dall'individuazione di un sito internet dai contenuti jihadisti, ospitato da un provider italiano. Il metodo di indagine è spiegato nel documento di Icsa, alla cui stesura hanno partecipato gli stessi carabinieri. «Attraverso il monitoraggio di alcuni siti internet è possibile infatti individuare i soggetti che, avendo avviato un processo di radicalizzazione, potrebbero rappresentare una minaccia, consentendo così di adottare misure per prevenirla. Il postulato su cui si basa questo “metodo di ricerca” è che non vi sono oggi terroristi (anche potenziali) che non visitino siti jihadisti». Qual è il protocollo di indagine messo a punto dal Ros? Il primo passo è quello di individuare gli indirizzi ip dei computer che hanno accesso ai siti con il bollino rosso. Ma questa pesca a strascico è solo l'inizio. Per comprendere in quale stadio del processo di radicalizzazione si trovino i soggetti sotto osservazione bisogna rilevare e interpretare precisi segnali. Ci sono cinque diversi tipi di indicatori: oggettivi, soggettivi, relazionali, ideologici e comportamentali. Tra i primi ci sono la navigazione internettiana su siti radicali, l'utilizzazione di software di anonimizzazione come Tor, la pratica di attività sportive come le arti marziali, l'abbandono di hobby e attività in famiglia, la pianificazione di viaggi in aree di guerra, l'acquisto di precursori di esplosivi; indicatori soggettivi sono l'età degli aspiranti terroristi (18-35 anni) e la nazionalità (la provenienza da zone travagliate da conflitti interni); tra gli indicatori relazionali c'è la «segregazione o polarizzazione», vale a dire «l'isolamento dell'individuo o del gruppo, che recide i propri legami con il resto della società», ma anche l'allontanamento dalla famiglia è una spia da tenere in considerazione; tra gli indicatori comportamentali ci sono la barba incolta, l'uso di abiti tradizionali (per esempio pantaloni corti), il disinteresse ostentato per le donne e per i locali con musica. Per il Ros «il metodo applicato nel progetto Jweb si può trasformare rapidamente in indagine giudiziaria o preventiva». Quello che sta succedendo in diverse zone del Centro e Nord Italia (per esempio a Milano) e non solo alla procura di Venezia. Quello che sta succedendo in varie zone del Centro e Nord Italia e non solo alla procura di Venezia: a Milano da un paio d'anni si lavora a un'inchiesta simile. di Giacomo Amadori

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