Maurizio Belpietro: Non si finanziano i terroristi ma una vittima non si abbandona
Il direttore di Libero, Maurizio Belpietro risponde ad una lettera inviata da Gelsomina Bergamo, madre di Gianluca Salviato rapito in Libia lo scorso 22 marzo. La madre dell'ostaggio chiede allo Stato di pagare il riscatto ai rapitori di suo figlio. Lo fa con un meassaggio inviato a Libero dopo l'editoriale del direttore di sabato 24 agosto in cui Belpietro ribadiva che pagare i riscatti equivale a finanziare i terroristi. Ecco qui di seguito la risposta di Maurizio Belpietro alla lettera di Gelsomina Bergamo. Gentile signora Gelsomina, quando ho scritto l'editoriale sulle due giovani lombarde rapite in Siria sapevo di avventurarmi su un terreno minato. Il rischio di far inferocire i famigliari di persone sequestrate, i quali - preoccupati delle sorti dei loro cari - vorrebbero che si facesse ogni cosa per riportarli a casa, mi era parso infatti fin da subito altissimo. E per questo ho premesso che se fossi un genitore farei esattamente tutto ciò che fanno i genitori di chi è nelle mani di una una banda di tagliagole. Invocherei pietà, raccoglierei tutto ciò che ho, busserei a ogni porta senza stancarmi, tratterei con i terroristi: perché la vita di un figlio o di un congiunto vale di più di qualsiasi cosa materiale e anche di tanti bei princìpi e di tante enunciazioni. Capisco dunque la sua reazione e probabilmente la sua rabbia quando ha visto il titolo di Libero di ieri, in cui si suggeriva di non pagare riscatti a chi sequestra e uccide uomini e donne in nome della guerra santa. Il titolo e il mio articolo non si appellavano però ai genitori e ai familiari di chi, contro la propria volontà, è tenuto lontano in una terra straniera. Entrambi erano rivolti al governo, perché un conto è essere il famigliare di un rapito - e comportarsi come tale - e un conto è essere un primo ministro che un giorno si dice indignato per le stragi e gli stupri di cristiani in Siria e il giorno dopo, pagando un riscatto, finanzia gli autori di quelle stragi e di quegli stupri. Certo, si fa alla svelta a rilasciare una dichiarazione all'agenzia Ansa o a scrivere un tweet contro i miliziani dello Stato islamico e le loro barbarie. Ma poi bisogna essere coerenti e comportarsi di conseguenza, evitando di cedere ai ricatti e soprattutto evitando di armare la soldataglia della jihad. Coerenza, lo ripeto per non ingenerare equivoci, che non è richiesta ai parenti di una persona rapita: loro sono liberi di comportarsi come ritengono e io farei lo stesso se mi trovassi nei loro panni. Lo Stato però non è un familiare e il presidente del consiglio non è un genitore. Chi sta al governo porta il peso delle decisioni e delle conseguenze di ciò che fa e dunque deve scegliere se salvare - forse - la vita di un italiano, cedendo alle minacce dei sequestratori e pagando 10 o 100 milioni, per condannarne altre che saranno soppresse con le armi comprate con i soldi del riscatto. Ecco, io penso che un premier debba agire, non combattere a parole i terroristi, ma farlo davvero, assumendosi la responsabilità di una decisione. Sbaglio? Forse. Se fossi un genitore certamente penserei che il mio ragionamento non stia in piedi. Ma poi rifletto anche su un altro aspetto: se anni fa, ai primi rapimenti, lo Stato non avesse ceduto, inginocchiandosi di fronte ai terroristi e ai tagliagole, questi avrebbero continuato a finanziarsi con i sequestri o avrebbero lasciato perdere? Forse oggi non avremmo tanti occidentali nelle loro mani. Forse. Ciò detto, lei però introduce un elemento su cui io non avevo riflettuto. Scrivendo l'editoriale avevo in mente Vanessa e Greta, le due giovani di Bergamo e Varese prigioniere di un gruppo integralista, e per questo me l'ero presa con le Ong, cioè con le associazioni di volontari impegnate in zone calde. Spesso questi giovani partono pieni di ideali e di buona volontà e non si rendono conto che si stanno ficcando nei guai. Dopo il rapimento di Domenico Quirico, il giornalista della Stampa sequestrato per lunghi mesi, ci voleva molto a capire che si doveva stare alla larga da Aleppo? Non essere un soldato o un giornalista, ma solo un volontario, da quelle parti non è garanzia di salvezza, perché per essere rapiti basta solo essere occidentali. Lì la vita vale niente, ma se si è un europeo può valere molto, perché si può chiedere un riscatto e trovare un governo che sottobanco lo paghi. Nessuno l'aveva spiegato a Vanessa e Greta? Non c'era chi fra i volontari delle Ong fosse in grado di consigliarle e di scoraggiarle dal partire? È a chi dirige queste Ong che va chiesto conto della sorte di Vanessa e Greta, non al governo. Tuttavia lei spiega che suo figlio non è un giovane partito alla ventura inseguendo ingenuamente i sogni. Era un disoccupato che aveva bisogno di lavorare e il lavoro lo aveva trovato in Libia. Gianluca Salviato a Tobruk non ci è andato per fare esperienza, per vedere il mondo o per assecondare i propri ideali: c'è andato per portare a casa uno stipendio. Anche se era lontano da casa, anche se era solo, anche se stava in una zona a rischio. Eppure, di un italiano costretto a partire per la Libia per avere un posto non parla nessuno. Di Vanessa e Greta sono piene le prime pagine dei giornali, su Gianluca invece niente. So che è brutto mettere le une contro l'altro, ma il trattamento stride. Sarà perché loro sono giovani, sorridenti, animate di buoni propositi, mentre suo figlio è quasi cinquantenne e malato. Sta di fatto che su di lui c'è una specie di congiura del silenzio. Come si dice in questi casi, la Farnesina segue con attenzione il caso e per favorire la liberazione dell'ostaggio mantiene il riserbo. Speriamo che sia vero. Su una cosa però sono d'accordo con lei. Una Repubblica che è fondata sul lavoro se costringe i propri cittadini a emigrare in zone pericolose per cercare lavoro una qualche responsabilità ce l'ha. Non so se questa arrivi fino al punto di giustificare il pagamento di un riscatto a una banda di terroristi - non credo - ma se lo Stato si fonda sul lavoro e sul lavoro pretende le tasse, allora deve almeno tutelare chi il lavoro deve andare a cercarlo in Libia. Non opponendoci ma partecipando alla sciagurata missione occidentale contro Gheddafi, noi abbiamo contribuito a creare l'inferno libico. Ora abbiamo almeno il dovere di tirar fuori Gianluca da quell'inferno. di Maurizio Belpietro [email protected] @BelpietroTweet