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Taranto, colpo di grazia a Ilva e operai: ecco come far fuggire gli investitori

Giulio Bucchi
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di Fausto Carioti Taranto è la metafora dell'Italia pulcinella della globalizzazione. In un mondo in cui tutte le economie avanzate schierano i cervelli migliori per attrarre capitali, noi con nonchalance indichiamo alla grande industria la porta d'uscita. Non c'è bisogno di leggere il rapporto sulla competitività del World Economic Forum - dove l'Italia è al 43esimo posto - per comprendere come mai gli investitori considerano il nostro Paese il grande appestato: basta la cronaca di questi giorni. La storia dell'Ilva è la lezione perfetta su come far sloggiare le (poche) imprese importanti rimaste e come spingere altrove i (pochissimi) capitalisti intenzionati a creare occupazione dalle nostre parti. Una sequenza esemplare che inizia il 26 luglio, quando il gip del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, emette due ordinanze. Una di queste dispone il sequestro di sei impianti dello stabilimento siderurgico. Gli ambientalisti esultano: hanno fame di un mondo pulito. I lavoratori dell'Ilva e i loro familiari, più prosaicamente, s'incazzano: hanno fame e basta. Scendono in piazza e bloccano la città.  Il 7 agosto il tribunale del riesame conferma il sequestro, ma con un'importante novità: gli impianti dovranno essere risanati senza che questo comporti la chiusura o l'interruzione dell'attività. Così, almeno, capiscono tutti. Bruno Ferrante, presidente dell'Ilva, tira un sospiro di sollievo perché «non si parla più di chiusura e di interruzione». Il governo Monti, che ha stanziato 336 milioni di euro dei contribuenti per il risanamento degli impianti, applaude: per Claudio De Vincenti, sottosegretario allo Sviluppo economico, la decisione del tribunale «è equilibrata e pone il problema della tutela ambientale mantenendo attivo lo stabilimento». Soddisfatta anche la Cgil, perché «si continua a produrre e si procede con celerità verso l'ambientalizzazione degli impianti». Nessuno dei magistrati che ha adottato il provvedimento smentisce. Tutto chiaro, dunque.  E invece no. Perché il gip che aveva fatto le prime due ordinanze ne ha appena tirata fuori una terza, con la quale pretende di interpretare la decisione del tribunale del riesame: l'Ilva dovrà risanare gli impianti sequestrati «senza prevedere alcuna facoltà d'uso a fini produttivi». In poche parole, lo stabilimento deve fermarsi. Gli ambientalisti esultano, i lavoratori s'incazzano, l'azienda annuncia un nuovo ricorso e il governo non ci capisce più nulla (Corrado Clini, ministro dell'Ambiente: «Sono molto preoccupato»). Qualcuno ha sbagliato. Non solo tra i dirigenti dell'Ilva, ma anche tra i magistrati che si sono contraddetti a vicenda in pochi giorni o comunque hanno fatto di tutto per mantenere l'ambiguità laddove, invece, c'era bisogno solo di certezze. Errori per i quali nessuno dei responsabili pagherà: a saldare il conto ci penseranno i lavoratori.  Post scriptum. Per essere chiari: in cima alla classifica del World Economic Forum non c'è la Corea del Sud. E nemmeno la Cina. C'è la Svizzera. E nei primi dieci posti ci sono Svezia, Finlandia, Stati Uniti, Germania, Olanda, Danimarca e Regno Unito. Per essere competitivi non occorre stare in Asia, far lavorare i bambini 12 ore al giorno, pagare stipendi da fame e non avere uno straccio di welfare. Basta essere un paese serio.

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