Selvaggia: a Rignanoi veri orchi sonoultrà pro e contro
La Lucarelli: nei salotti tv si dividono sulla tragedia dei bambini come allo stadio
«Il fatto non sussiste». Così ha deciso il tribunale di Tivoli sulla triste vicenda di Rignano Flaminio. Ma fuori dal confine secco della legge, col suo linguaggio scarno e impersonale, ci sono tanti fatti che sussistono, in questa storia. Sussiste, intanto, un desolante clima da ultras fatto di tifoserie e schieramenti, di innocentisti e colpevolisti, di partiti che sventolano la bandiera della suggestione collettiva e di partiti che issano sulla casetta gialla di plastica del giardino dell'asilo, la bandiera con la faccia degli orchi. Un dogmatismo emotivo che ha trovato il suo primo doloroso sfogo nella divisione di un paese, Rignano, in cui ad un tratto il nemico ha assunto le sembianze amichevoli del barista, del fornaio, del vicino di casa. Proprio come nelle guerre più odiose, nei conflitti etnici e religiosi, in cui non conta più chi sei stato fino a ieri. Conta quello in cui credi. Conta il marchio. Conta l'appartenenza a una religione. A una fazione. Un clima avvilente che ricompare intatto e abominevole dopo l'assoluzione dei cinque imputati. Avvocati tronfi e trionfanti, abbracci liberatori, maestre che urlano la loro gioia da una parte. Pugni sul muro, rabbia feroce, urla di protesta e lacrime che solcano guance e campi di dolori inumani. Dolori di genitori, che solo i genitori conoscono. Ma gli integralismi sono contagiosi e il tifo è una brutta bestia, per cui lo scempio del dolore a squadre, si propaga ovunque. La sera della sentenza, su twitter, c'erano amici, anche illustri, degli imputati che comprimevano in 140 caratteri il sollievo per la fine di una vicenda lunga sei anni. Esultavano. Si complimentavano, come se si parlasse di una promozione a caporeparto. Dall'altra, c'erano i colpevolisti, quelli che non hanno mai messo in dubbio le parole dei bambini perchè i bambini non sono capaci di bugie così oscene, che additavano gli innocentisti come «Luridi», «Amici dei pedofili» e così via. Uno sciame di tweet raccapriccianti tra accuse reciproche e minacce di querele. Poi è arrivata la tv dei salotti pop in cui si discute di cellulite e pedofilia senza neanche lo spot di un assorbente nel mezzo, che ha fatto il resto. Sentenze lette in diretta, pubblico che rumoreggia e fischia, sguardi della serie «che-schifo-li-hanno-assolti» da parte di gente che si comporta come se sfogliasse gli atti processuali prima di andare a dormire. Conduttrici che ascoltano tutte le parti in causa e premettono: «No, io non prendo posizione», però quando parla l'avvocato delle maestre fanno la faccia contrita. Perché loro, i veri orchi, si sono inventate questo stile fintamente empatico di raccontare le storie, per cui sull'onda dell'emotività prendono la posizione più di pancia, più populista, più giustizialista che regala il «brava» del pubblico forcaiolo. E che fa passare un messaggio pericoloso: i processi si fanno al bar. Lo so che è umano, decidere in che squadra stare. Lo so che la sciocchezza la diciamo tutti, tra le pareti di casa. Si fanno centinaia di processi sommari, tra parenti, davanti a Porta a Porta. Ma davvero, questa di Rignano è una storia a sé, perché qualunque cosa uno pensi, qualsiasi idea uno si sia fatto, non si può non provare una pena profonda per tante le tante vite fracassate. E, soprattutto, è una vicenda così complessa e piena di buchi nei racconti, nelle testimonianze, nelle ricostruzioni, che un momento credi una cosa e due minuti dopo ti sorprendi ad avere l'idea opposta. Da madre, mi è sempre risultato difficile credere sia all'ipotesi di intere classi trasferite in case lontane dall'asilo senza che nessuno se ne accorgesse, che alla fantasia collettiva di così tanti bambini. Io non riesco a far dire a mio figlio cose che non ha visto, sentito, sperimentato. Non lo frego. Ma davvero, è surreale pure pensare a un clan di maestre pedofile, alla partecipazione di mariti e benzinai, a travestimenti, case, piscine, uomo nero. E senza uno straccio di intercettazione, prova documentale, senza una traccia biologica su un oggetto o un peluches. E però perché mai decine di genitori avrebbero dovuto iniziare un iter di dolore così lungo e impervio, costringendo i loro figli a torture psicologiche immani, se non fossero stati certi di quello che era accaduto? Vedete? Succede questo, quando si pensa a questo caso senza bandiere e gagliardetti. Che non ci se la fa, a farsi un'idea. Non ce la fai a pensare che le maestre, che dovrebbero accompagnare per mano tuo figlio nel mondo degli adulti, possano tirarlo per il braccio fino a spingerlo nelle pieghe più nere del mondo degli adulti. Non puoi pensare a genitori mitomani che imbeccano, manipolano, istruiscono scientificamente i figli alla menzogna per assecondare paranoie e fantasie infamanti. Un'idea chiara però, in testa, ce l'ho: non c'è spazio per il tifo, in questa storia. Non è cosa da ultras. Non c'è spazio per esultanze facili e minacce stonate. Se è una partita, questa vicenda, è finita pari. Dolore per tutti. Un dolore che merita un'attenzione, una partecipazione silenziosa. Quella cosa rara, civile, dolente, che si chiama compassione. E ricordo che c'è un appello. In un paese in cui Amanda e Raffaele un giorno erano due brutali assassini e il giorno dopo dei giovani innocenti. Io non tifo. Rispetto la sofferenza. E penso ai poveri bimbi di Rignano, che uno stupro, in un modo o in un altro, l'hanno subito. Poveri bambini. Poveri adulti. di Selvaggia Lucarelli