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Tassista ucciso, zero testimoniil processo che spaventa Milano

Luca Massari è stato ucciso il 10 ottobre 2010

Intimidazioni e minacce: al processo per l'omicidio di Luca Massari si presentano in quattro su venti

Matteo Legnani
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Testimoni terrorizzati di deporre a un processo per concorso in omicidio. Non siamo in terra di mafia e nemmeno negli anni '70, quando i capi delle Brigate Rosse intimidivano le giurie popolari. Ma oggi, a Milano, dove si sta celebrando il processo a carico dei fratelli Citterio, Pietro e Stefania, per l'uccisione del tassista Luca Massari, e contro Davide Lagreca, accusato di favoreggiamento per aver depistato le indagini. Il fatto avvenne il 10 ottobre 2010, nella periferia sud della città, tra i condomini popolari del quartiere Antonini. Quella domenica sera Massari aveva lasciato un cliente in zona e stava percorrendo via Ghini quando un cocker senza guinzaglio gli taglia la strada. Non riesce a evitarlo, lo uccide. Scende dal taxi, arriva la padrona del cane e un gruppo di loro amici, tra cui i fratelli Citterio e il fidanzato di Stefania, il trentaduenne Morris Ciavarella. Aggrediscono Massari, che avrà il cranio sfondato, e Ciavarella, che era stato subito arrestato, lo scorso luglio viene condannato a 16 anni per l'omicidio volontario del tassista. Tanti assistono alla scena e la procura, per fare luce sugli altri partecipanti al pestaggio, individua almeno venti testimoni, quegli stessi che ora in gran parte si tirano indietro, spaventati dalle possibili ritorsioni. C'è chi ha scritto direttamente al pm: “avendo paura che succeda qualcosa a me e alla mia famiglia, non voglio testimoniare”. Chi ha presentato un certificato medico che lo descrive in un tale stato di debolezza fisica e psichica da non poter recarsi in tribunale. Chi ha provato a rendersi irreperibile, finché non è stato rintracciato dai carabinieri. E, come raccontava ieri Repubblica, degli altri testimoni solo quattro avrebbero confermato la loro deposizione, confermando quanto avevano visto la sera del pestaggio. Ma loro non vivono più nel quartiere, si sono messi al sicuro. Gli altri hanno paura, e starebbero sul punto di ritrattare. Del resto le minacce sono concrete: due macchine dei testimoni sono state incendiate, un po' meglio è andata al fotografo che stava scattando immagini di una delle auto bruciate, era stato colpito in testa con un manico di scopa. Durante le indagini gli investigatori parlavano di “impressionante livello di omertà” nel quartiere, ma non è solo omertà, è come se in quella periferia di Milano, proprio come nei territori di mafia, fosse rispettata solo la legge della violenza, che prevede il regolamento di conti deciso dalla comunità e dai suoi boss, e chi non si adegua è subito punito. E non è servita a dare coraggio, un mese dopo il pestaggio del tassista, la fiaccolata in sua memoria cui parteciparono un migliaio di residenti del quartiere, né l'Ambrogino d'oro assegnato a Stefania Berti, la prima testimone del linciaggio. Le fiaccolate e i premi puntano per un giorno i riflettori su chi sa e potrebbe parlare, ma poi quelli si spengono, e arrivano le minacce telefoniche, gli avvertimenti al citofono, l'intimidazione capillare, quotidiana che appesta l'aria, in un quartiere in cui chi si rivolge alle forze dell'ordine è un traditore delle regole non scritte che regnano in quelle strade. Lunedì ci sarà la requisitoria del pm, Tiziana Siciliano, e le richieste di pena. Non sarà stato facile per lei far emergere la verità e assicurare alla giustizia tutti i colpevoli di fronte a quei dietrofront, alle versioni cambiate dall'oggi al domani, alle macchine che prendevano fuoco da sole, ai certificati medici che diagnosticano il male della paura di fronte alla vendetta del quartiere. Comunque andrà il processo, una cosa è certa. Gli abitanti di via Ripamonti, via Ghini, via Antonini, non sono cittadini liberi come gli altri milanesi. di Giordano Tedoldi

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