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Facci: il generale Mori e gli Ingroia al pettine

Filippo Facci visto da Vasinca

La sentenza di Palermo abbatte il teorema della trattativa Stato-mafia, ridà onore all'accusato e demolisce la carriera di pm e giornalisti che sui "non reati" hanno campato. Ma non finirà qui

Giulio Bucchi
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C'era più dignità nel disorientamento del pm Nino Di Matteo, l'altro ieri, che nella falsa sicumera di un Ingroia che non era neanche capace di ammettere una sconfitta spaventosa, il crollo delle fondamenta sulle quali aveva edificato una carriera ora fallita. Ingroia, ora, vaneggia che il generale Mori «i fatti li aveva comunque commessi», frase ambigua come lui: come a dire che Mori in effetti no, non fece perquisire il casolare dove c'era Provenzano, ma non lo fece apposta, e solo per questo non è reato. Ma non è così. Mori, di fatto, non fece perquisire un casolare dove non c'era nessuno, figurarsi Provenzano: e ci mancherebbe che una cazzata del genere fosse reato. Il reato non c'è, e se non c'è significa che non ci sono colpevoli, e se non ci sono colpevoli, in tutti i tribunali del mondo, significa soltanto una cosa: che non dovevi indagare, non dovevi procedere, non dovevi farti stipendiare per mettere in ombra galantuomini che invece i colpevoli li hanno scovati davvero, non dovevi costruirci una carriera anche politica, non dovevi spianarla a giornalisti che sui «non reati» ci campano. Giustizia è, anche, non fare processi inutili, giustizia è evitare un «accertamento della verità» che era già accertato: che Mori è un galantuomo e Ingroia ha fallito. Dicono che ora c'è l'Appello, che c'è ancora la cosa della trattativa, dicono che non è finita qui. Potete giurarci. di Filippo Facci

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