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Il maggiordomo del Papa condannato a 18 mesi Lui: "Ho agito per amore della Chiesa"

Paolo Gabriele è stato giudicato colpevole di furto aggravato, concesse le attenuanti

Eliana Giusto
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Il maggiordomo infedele del Papa è stato condannato a tre anni di reclusione ma la pena è stata "diminuita" a un anno e sei mesi per via delle attenuanti riconosciute. La sentenza è stata letta dal presidente del Tribunale, Giuseppe Dalla Torre, alle 12,20 cioè dopo poco più di due ore trascorse dai giudici in camera di consiglio. In pratica sono stati considerati gli anni di servizio di Gabriele  precedenti a quelli cui si riferiscono i fatti contestati, le motivazioni “seppure erronee, che lo hanno spinto ad agire per il   bene della Chiesa e del Papa, l'ammissione di aver danneggiato il Santo Padre”. Il "Corvo" non andrà in carcere perché gli sono stati concessi gli arresti domiciliari. Di più, per Gabriele non è escluso che arrivi la grazia del Papa. Questa eventualità, ha spiegato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, "è concreta e verosimile. Posso dirlo senza temere di essere smentito". Ratzinger, adesso che ha gli atti del processo, "valuterà la sua posizione e se desidera prendere decisioni". L'accusa - Il Promotore di giustizia Nicola Picardi che rappresenta l'accusa al processo contro Paolo Gabriele, imputato per il furto aggravato di documenti riservati dal Vaticano, aveva chiesto una pena di tre anni e l'“interdizione perpetua e parziale dai pubblici uffici”, ovvero il divieto di lavorare in uffici che abbiano a che fare con "l'uso del potere e cioè con aspetti giudiziari, legislativi e legali". La difesa - “La cosa che sento forte dentro di me è la convinzione di aver agito per l'esclusivo e viscerale amore per la Chiesa di Cristo e per il suo capo visibile, e se lo devo ripetere, non mi sento un ladro” ha detto stamattina Gabriele alla fine del processo per la diffusione di carte riservate dall'appartamento del Pontefice. La difesa aveva chiesto che il suo assistito fosse giudicato per appropriazione indebita e non per furto aggravato, derubricando cioè il tipo di reato. Nella sua arringa l'avvocatessa Cristiana Arrù ha motivato la richiesta di derubricare il reato con il fatto che le carte sottratte erano nella sua disponibilità (e spesso gli veniva chiesto di fare fotocopie) e ha parlato di una situazione ambientale, descritta come "il male che vedeva", che secondo lei avrebbe "costretto" Gabriele a compiere "un atto comunque condannabile e illecito". 

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