Alcoa, Passera, Cgil: ecco chi ha fregato gli operai
di Pietro Senaldi Chi ha fregato i lavoratori di Alcoa? Un po' tutti, con diversi gradi di responsabilità. Prima, Alcoa stessa, che da 15 anni prende soldi dall'Italia per tenere aperto lo stabilimento sardo di Portvesme e per molto tempo, grazie a condizioni di favore ben oltre i limiti della concorrenza e al portafoglio del contribuente italiano, ha realizzato grandi ricavi. Già l'acquisto, nel 1995, fu un affare. Alcoa sbarcò in Italia rilevando gli stabilimenti dell'azienda pubblica Alumix, che per disperazione Dini privatizzò, o meglio svendette, agli americani abbonando ai compratori il debito verso lo Stato di 1.500 miliardi, scaricato automaticamente sui contribuenti. Non solo, piegandosi al ricatto della conservazione dei posti di lavoro, fu stabilito per decreto anche l'abbattimento del costo dell'energia. Un trattamento che l'Europa ha considerato un «aiuto di Stato lesivo della concorrenza», condannando l'azienda a risarcire l'Italia con 300 milioni. È questo, il non poter più competere slealmente pagando l'energia 30 euro a megawattora mentre gli altri la pagano 57, uno dei motivi per cui gli americani se ne vanno, ed è per questo che suonano fastidiose le giustificazioni di Alcoa, che spiega di aver già chiuso stabilimenti in Usa, Spagna, Francia e Germania e afferma che a fronte dell'apertura del nuovo impianto in Arabia, con manodopera ed energia a costi bassissimi, non è ragionevole restare aperti anche da noi. Perché non si può inneggiare alle logiche del libero mercato e della globalizzazione per chiudere dopo che per anni si è ciucciata la mammella pubblica. Qui però entrano in gioco anche le responsabilità della politica. A partire dal governo e dal ministro dello Sviluppo in carica, che domenica a Cernobbio ha affermato che «l'azienda ha attuato procedure di chiusura regolari, avvisando per tempo, e che è molto arduo trovare dei compratori, almeno entro la data prevista per la chiusura». Sarà, ma forse il ministro avrebbe anche il diritto-dovere di mostrare la faccia dura a chi ha foraggiato per decenni, anche se è ricco, potente e americano. La sensazione è invece che ai manager che ci governano risulti più facile comprendere le ragioni della multinazionale Usa anziché immedesimarsi ed essere simpatetici con quelle degli operai sardi. Il teatrino andato in scena ieri ricorda il peggio del sindacalismo e della politica italica. Ai 500 e passa operai arrivati a Roma sull'onda della disperazione e fronteggiati dalla polizia è stato opposto inizialmente solo il sottosegretario De Vincenti, che forse per ingraziarsi le bellicose tute blu si è affrettato a dichiararsi del Pd. Ma non è servito a placare gli animi, anche perché si è subito capito che era lì a fare la parte del poliziotto cattivo, così da consentire a Passera nel pomeriggio di intervenire, a differenza del giorno prima, nelle vesti del poliziotto buono con parole di fumoso, consolatorio e inconcludente ottimismo tipo «mai detto che il caso è impossibile», «stiamo lavorando su tutto quello che può dare sviluppo al Sulcis», «faremo pressione». Insomma, sembrava di sentir parlare Franco Marini anziché un rampante e dinamico manager-banchiere prestato alla politica. Quella di Alcoa infatti, oltre che una storia di rapacità delle multinazionali Usa e inconcludenza del governo dei tecnici, è anche la solita storia di vecchia politica assistenzialista, impregnata di belle parole e sacri principi che si reggono poi solo sul portafogli dei contribuenti. Si stima che in 15 anni Alcoa sia costata alle nostre tasche 3 miliardi; soldi gettati per tenere in vita un'economia morta, un po' come nel caso dei minatori del Sulcis, poco distanti. Ieri il responsabile del Lavoro per il Pd, Fassina, era in strada con le tute blu. Forse si aspettava di ricevere applausi e consenso ma la semina è stata sfortunata e Fassina ha raccolto solo fischi e spintoni. Di questi episodi non ci si può rallegrare ma un segnale nuovo c'è: gli operai hanno capito che, specie a sinistra, c'è chi specula sulle loro sventure e la loro rabbia, e non solo da ieri. Sul pullman che li portava a Roma, le tute blu hanno descritto una realtà raggelante. C'era chi definiva il suo lavoro «un'agonia», chi si lamentava di non potersi riconvertire perché l'industria ha distrutto la possibilità di fare agricoltura e ha portato un inquinamento che rende quello che sarebbe un paradiso una meta sconsigliata ai turisti, chi spiegava che vive nella provincia più povera d'Italia. Se il 31 dicembre gli operai Alcoa e i minatori del Sulcis saranno disoccupati e senza alternative devono ringraziare chi per anni si è battuto per difendere un sistema industriale antiquato, diseconomico e assistito, che ha conservato loro un lavoro massacrante e inutile in cambio dei redditi più bassi del Paese e di una vita senza speranze, distruggendo economicamente e ambientalmente la loro terra. La protesta di ieri inchioda a tutto questo i politici (anche locali, il Sulcis è un feudo rosso) e i sindacati, che affrontano le sfide del lavoro in una logica totalmente conservativa e che per bocca di Bonanni hanno pure provato a minimizzare con frasi del tipo «di ‘sti tempi perdiamo mille posti di lavoro al giorno». Sindacati che vivono di retorica e anziché battersi per migliorare condizioni di lavoro e stipendi e adeguare battaglie e obbiettivi alle nuove realtà, si nutrono della disperazione dei lavoratori, mettendo le loro sempre più scarse vittorie in conto a Pantalone. Perché di tutta questa vicenda una cosa è certa: se le miniere del Sulcis o Alcoa resteranno aperte saranno per merito e a spese nostre, anche se poi i soliti noti si intesteranno il successo.