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Basta illazioni: chi attacca il Colle colpisce l'Italia

Il Capo dello Stato sta gestendo bene il Paese in un momento drammatico: è da pazzi provare a distruggerlo alla vigilia di un autunno difficile

Andrea Tempestini
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  L'Italia è davvero un Paese alla frutta. Tra i tanti indizi che lo confermano ne esiste uno che ci obbliga a riflettere. La contesa politica, un evento normale in tutte le democrazie, si è trasferita nell'orto dei media. Giornali e giornalisti, entità senza poteri reali, se le stanno dando a più non posso. Si accusano a vicenda delle nefandezze peggiori. E dimenticano la loro ragion d'essere: informare il pubblico che li tiene in vita. Tutto scade in rissa, insulti, beffe goliardiche. Le notizie non esistono più. Il racconto della giornata diventa irreale. Gli avversari, ossia i media concorrenti, assumono fattezze mostruose o grottesche.  L'ennesimo indizio di questo processo degradante l'ho colto nella prima riga dell'articolo di fondo scritto venerdì dal direttore di Repubblica, Ezio Mauro. Per squalificare le tesi di Panorama a proposito delle intercettazioni telefoniche di Giorgio Napolitano, ha definito il periodico guidato da Giorgio Mulè «il settimanale ideologico della destra berlusconiana».  Ciumbia!, non mi ero accorto che quella testata della Mondadori avesse preso il posto che un tempo, a sinistra, spettava a Rinascita, il settimanale preferito da Palmiro Togliatti. Chi sarà mai il Togliatti di Segrate? Mulè o qualcuno assai più titolato di lui a fare il gendarme dell'ortodossia ideologico-culturale di quella che una volta era la parrocchia del Cavaliere?  Ma inseguendo le fantasie di Mauro tutto diventa incomprensibile. Lo stesso sarebbe se il concorrente diretto di Panorama, l'Espresso diretto da Bruno Manfellotto, venisse definito il settimanale ideologico della sinistra debenedettiana. Nel senso del partito guidato dall'ingegner Carlo De Benedetti oppure, scendendo di qualche gradino, del suo club Libertà e giustizia. Per capirci qualcosa, forse è utile ridare le giuste proporzioni al bordello suscitato dalla copertina di Panorama. Dove campeggiava il titolo «Ricatto al Presidente».  Le proporzioni acconce mi sembrano le seguenti. Anche Panorama è in crisi come gran parte della carta stampata. Calano i lettori e, di conseguenza, la pubblicità. I direttori vivono tempi acidi. Le loro poltrone sono a rischio. Com'è possibile cavarsela? Il modo è uno solo: fare un giornale che sforni degli scoop, ossia offra notizie che gli altri non hanno o inchieste che gli altri non fanno.  Dietro quella copertina di Panorama c'erano notizie inedite? Mi pare proprio di no. Anche la storia del ricatto a Napolitano non era il frutto di un'inchiesta, ma soltanto un insieme di illazioni, anche accettabili, ma suffragate dal nulla. Ai suoi tempi Ciriaco De Mita le avrebbe chiamati «raggionnamenti».  Nelle telefonate con il senatore Nicola Mancino, il capo dello Stato avrà parlato male di Tonino Di Pietro, di Berlusconi, dell'attivismo di troppi magistrati politicizzati, a cominciare da qualche pubblico ministero di Palermo? È possibile. Ma se non citi tra le magiche virgolette le parole che ha pronunciato, il tuo scoop risulterà fasullo. E il lettore si pentirà di aver speso tre euro per trovarsi a mani vuote, come è successo a me nell'acquistare quel numero di Panorama.   Eppure sono bastate la copertina e le pagine che tentavano di spiegarla per scatenare un pandemonio politico senza precedenti. Insieme a una bufera incomprensibile sul Quirinale. Due politici in difficoltà, Tonino Di Pietro e il leghista Roberto Maroni, hanno intimato a Napolitano di rendere pubbliche le intercettazioni. La stessa richiesta è venuta da più di un giornale con una tigna ridicola. Suffragata da esempi Usa. Dove i presidenti parlano così: «Voglio che tu mi baci il culo e mi dica che profuma di rose» (Il Fatto quotidiano, 1 settembre 2012).   Perché questo festival dei nervi tesi? Il motivo è sempre il solito. Siamo un Paese in crisi e la politica dà fuori di matto. Trionfa quella che chiamiamo l'antipolitica. Ossia i gruppi, i clan, i movimenti e i poteri che sperano di avere la meglio sulle rovine dei partiti. Senza rendersi conto che vincere in un paese ridotto in macerie sarà soltanto un suicidio.  Nel disastro italiano sono rimaste in piedi poche autorità istituzionali. Una di queste è il presidente Napolitano. Vogliamo distruggere anche lui? Per rendergli impossibile guidare l'ultimo passaggio del suo settennato? Se andremo a votare nel marzo 2013, e a maggior ragione nel caso di un ricorso anticipato alle urne, sarà «re Giorgio» a governare il post voto e a incaricare il nuovo premier.  Napolitano lo potrà fare nell'interesse di tutti gli italiani soltanto se verrà lasciato compiere il proprio dovere con la calma, la lucidità e il senso del ruolo che ha dimostrato dal maggio del 2006 in poi. Gli storici poi decideranno se sia stato o no un grande presidente. Il Bestiario non ha dubbi in proposito: «re Giorgio» si è rivelato l'uomo giusto per affrontare le crisi politiche che si è trovato a gestire.  Guai a dimenticare quanto è accaduto dopo il suo ingresso al Quirinale. La fine del secondo governo di centrosinistra affidato a Romano Prodi. Le elezioni del 2008 e il rientro di Berlusconi a Palazzo Chigi. Lo sfaldamento del centrodestra nel novembre 2011. E la nascita del governo tecnico di Mario Monti. Tutti passaggi che potevano essere traumatici in un paese che, di colpo, veniva messo a terra dalla grande crisi economica mondiale.  Non oso neppure immaginare quel che poteva succedere se Napolitano fosse andato in tilt. Penso di conoscere bene il presidente per averlo descritto molte volte quando era uno dei capi del Pci e guidava la corrente riformista. So che è un tipo coriaceo. E come tutti gli uomini di carattere va preso con le molle, ma anche con molto rispetto.  Credo che lui abbia compreso sino in fondo le ragioni pretestuose di chi oggi lo ha preso di mira. C'è chi lo osteggia perché si sente vedovo di Berlusconi. C'è chi lo prende di mira perché non ha digerito il governo Monti. E chi lo vedrebbe bene all'inferno poiché è rimasto l'unica barriera contro il montare dello sfascismo predicato da Beppe Grillo e da politici disperati come Di Pietro.   Per tutto questo mi sembra da incoscienti assalire Napolitano. Soprattutto alla vigilia di un autunno che sarà molto difficile. La crisi economica e sociale diventerà sempre più dura. E considero puerile incolparne il governo Monti. Confondere il medico con la malattia non è buon giornalismo. Purtroppo anche Libero si comporta così e me ne dispaccio.    Lo dico correndo il rischio di essere bollato pure io come un corazziere del Quirinale. Non ho più l'età per indossare la corazza. In compenso gli anni mi hanno reso un tantino più saggio. Vorrei che un po' di saggezza ispirasse i comportamenti di alcuni attori che in questa stagione affollano la ribalta e rompono i corbelli ogni mattina.  Non mi riferisco ai giornali, per loro esiste un giudice inappellabile: i lettori. Parlo di una minoranza di magistrati che si muovono come capetti politici. Il primo fra tutti è Antonio Ingroia. Ha deciso di andare in Guatemala a combattere la criminalità. Ma è sempre qui nei dibattiti, nelle tavole rotonde, sui giornali, adesso anche al Festival del cinema di Venezia. Nessuno ha spiegato al povero Ingroia che l'apparire senza tregua ha un effetto micidiale: la gente si stufa, ti considera una macchietta, persino la tua barba sembra finta. Sapete chi mi ricorda Ingroia? Walter Veltroni che, dopo una sconfitta elettorale, aveva garantito che sarebbe andato in Africa a fare il missionario laico. C'è andato Walter? Macchè.  Si comporterà così anche Ingroia nei confronti del Guatemala? Ai posteri l'ardua sentenza. di Giampaolo Pansa  

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