La doppia pensionedi Fini & Co.
di Antonio Castro È un po' la riserva indiana dei privilegi. Ovvero la pensione ottenuta senza muovere un dito, o meglio versando un modesto contributo (obbligatorio solo dal 1999 e comunque deducibile dalle tasse), e facendo scattare così la generosa contribuzione figurativa. E quindi una pensione di tutto rispetto pur non avendo messo piede al lavoro per decenni. Un beneficio di legge a cui potrebbero accedere dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, fino all'ultimo dei parlamentari a patto che abbiano svolto in precedenza un periodo come lavoratore dipendente: giornalista, professore, militare, diplomatico, ecc. Il ministro del Welfare Elsa Fornero, potrebbe affondare i denti in questo succolento boccone già a settembre. In fondo le basterebbe chiedere all'Inps (che da qualche mese raggruppa conti e competenze di tutti gli ex istituti previdenziali pubblici), di sapere quanto spende l'Istituto (e quindi lo Stato) in contributi figurativi. Tutto si basa su una legge del 1970 (la 300, articolo 31 dello Statuto dei lavoratori), che prevede proprio la contribuzione figurativa per tutti i lavoratori in aspettativa per cariche elettive: sindacalisti, deputati, senatori, presidenti e consiglieri di Regione, europerlamentari. Fino al 1999 bastava fare domanda e l'ente pensionistico di appartenenza era vincolato a versare l'intera contribuzione (pari al 30% dell'ultima retribuzione percepita), così da garantire all'eletto la pensione. Eredità di un Regio decreto (del 4 ottobre 1935, n. 1827) che intendeva garantire un mezzo di sostentamento ai non ricchi di famiglia. Peccato che nel frattempo l'eletto, per esempio in Parlamento ma anche in molti consigli regionali, maturasse anche il vitalizio. Insomma, uno strumento democratico già previsto dai Savoia nel frattempo è stato integrato, rimescolato e attrezzato per consentire ai signori deputati, consiglieri o sindacalisti di beneficiare di una signora doppia pensione. Tutto bene se lorsignori provvedessero a pagarsela la pensione. Nel 1999 questo scandaletto di beneficio venne un po' rivisto, anche sull'onda dell'indignazione popolare. E all'eletto - per far scattare la contribuzione figurativa di oltre il 20% - venne chiesto un modesto contributo pari a meno del 9% della retribuzione che avrebbe preso se fosse rimasto al proprio posto di lavoro. Oggi qualsiasi lavoratore dipendente ha una trattenuta in busta paga dell'8%. I contributi pensionistici restanti (20%) li versa il datore di lavoro. Per i signori eletti, invece, a provvedere al pagamento della quota del datore di lavoro provvede l'Istituto di previdenza. L'Inps per i dipendenti pubblici, l'Inpdap per gli altri. E poi l'Inpgi, l'Istituto di previdenza dei giornalisti italiani, che dalla privatizzazione in poi assolve tutti gli obblighi previdenziali come l'Inps, compreso quindi anche il versamento dei contributi figurativi. Per riuscire a capire quanto costano alla “fiscalità generale” le pensioni non lavorate dei nostri eletti (compresi anche i parlamentari europei) abbiamo girato sottosopra il bilancio di previsione dell'Inps. L'unica voce che sembra confacente è quella relativa a «Rivalsa verso le amministrazioni locali per quote di trattamento di quiescenza e di Tfr relative al personale dipendente che ricopre cariche elettive». Il costo stimato per il 2012 è di 9 milioni e mezzo. Mica poco. Per evitare di essere additati come partigiani siamo andati a spulciare la categoria dei giornalisti. E per capire quanto costa ogni singolo deputato che abbia lavorato come dipendente siamo ricorsi al bilancio, ben più agile, dell'Inpgi. Considerando che in Parlamento siedono un centinaio di giornalisti (su mille parlamentari in tutto), la casistica è statisticamente significativa per orientarsi. La contribuzione figurativa per un giornalista che molla la poltrona in redazione dopo l'elezione, costa all'Istituto circa 20mila euro l'anno. Al deputato o al senatore tocca versare un contributo dell'8,69% sull'ultima retribuzione. E visto che di giornalisti ce ne sono tanti (ma solo una trentina hanno chiesto di accedere al beneficio), il conto è presto fatto: all'Istituto privato dei giornalisti garantire una pensione figurativa ai “colleghi” che siedono in Parlamento o a Bruxelles, costa la bellezza di 600mila euro l'anno. Per ogni anno che il “collega” rimane eletto. Secondo calcoli prudenti fino al 2000 la spesa sostenuta per tutti gli eletti è stata pari a 5 miliardi di euro. Di esempi eclatanti ce ne sono tanti: Massimo d'Alema (ex direttore dell'Unità), Walter Veltroni (anche lui al quotidiano fondato da Gramsci ), ma anche l'attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini, che nel 1983 ha mollato la cadrega al Secolo d'Italia per il Parlamento. O ancora Italo Bocchino, portavoce di Fli., giornalista pure lui. L'Inpgi, ovviamente, si guarda bene da far trapelare chi e quando ha fatto richiesta di accredito dei contributi figurativi, osservando alla virgola la legge sulla privacy. Tra parlamentari già pensionati, e colleghi con qualche scrupolo di coscienza, solo il 30% degli aventi diritto sembra aver richiesto l'accredito. Considerando che i predetti colleghi-onorevoli hanno mediamente quattro o cinque legislature alle spalle chiunque avesse fatto domanda di accredito avrebbe ottenuto dall'Istituto centinaia di migliaia di euro di contributi. Gratuitamente. E fosse solo il regalino. A seconda dell'età anagrafica i colleghi giornalisti - ma con la stella parlamentare - andranno prima o poi in pensione. E visto che i contributi veri non ci sono, l'Istituto sarà così magnanimo da versargli un bell'assegno mensile. Tutto secondo legge, per carità. Però l'ultima riforma delle pensioni ha fatto un beffa a chi la pensione di giornalista se l'è sudata. Infatti da tre anni a questa parte - spiegano i pensionati infuriati - è scattato il blocco della perequazione, vale a dire l'adeguamento delle pensioni. Pochi spiccioli? Non proprio: mediamente ogni pensionato ci rimette mille/duemila euro netti l'anno, e scusate se son pochi. Sacrosanto il diritto di mantenere una pensione per la vecchiaia. Una sola domanda: ma lorsignori deputati, senatori, consiglieri o europarlamentari, non potrebbero pagarsi i contributi? Con appannaggi da oltre 9mila euro netti al mese (quando non di più) versare il 29,97% di contributi non è un dramma. Tanto più che il contributo è fiscalmente deducibile. Almeno fino a quando il ministro dell'Economia Vittorio Grilli non metterà mano alla giungla dei benefici fiscali...