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Silvio stavolta può vincereanche perdendo le elezioni

Visto da Benny

Matteo Legnani
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  Si candiderà premier come sempre ha fatto in passato, ma stavolta non sarà come le altre. Stavolta Silvio Berlusconi corre mettendo in preventivo che l'esito più probabile della gara sarà la sconfitta del Pdl. Per questo ha detto ai suoi di cambiare la legge elettorale: si sentisse davvero la rimonta in tasca, non rinuncerebbe mai all'amato Porcellum, che assegna al vincitore almeno il controllo di un ramo del Parlamento. E invece Berlusconi corre con un obiettivo diverso dal solito: mantenere il suo partito al governo anche se non dovesse vincere le elezioni, obbligare il Pd a venire a patti e fare una nuova grande alleanza, se possibile ancora sotto le insegne di Mario Monti. Una strategia imprevista, lanciata al momento giusto e subito in grado di mettere nei guai Pier Luigi Bersani. Perché Berlusconi è in ottima compagnia. Il segretario del Pd è il vero bersaglio dell'attacco concentrico lanciato da tutti i palazzi, inclusi quelli che sino a pochi giorni fa gli erano amici. Il pressing asfissiante del Quirinale, la voglia di Monti di restare sulla scena da protagonista anche dopo il voto, le trame di Pier Ferdinando Casini e - adesso - il progetto del Cavaliere. Mosse non concertate tra loro, ma che vanno tutte nella stessa direzione: costringere Bersani, probabile vincitore delle elezioni, a non fare il premier. E a non apparentarsi con Nichi Vendola in vista delle elezioni, ma a proseguire la strana alleanza con Pdl e Udc nel 2013 e oltre. Lo vuole Napolitano, che ha dalla sua una parte del Pd. È il progetto che piace a Monti, perché gli permette di coltivare le proprie ambizioni. Ed è quello cui punta Berlusconi, il quale - con apparente paradosso - si candida a fare il premier proprio per questo. È stato Napolitano ad aprire lo spiraglio nel quale Berlusconi si è infilato con uno scatto alla Balotelli. Il presidente della Repubblica, diventato per Bersani il problema numero uno, in questi giorni ha chiesto due cose. La prima è una nuova legge elettorale. Con quella in vigore il Pd, se vincesse, otterrebbe - da solo o in compagnia dei propri alleati - il 55% dell'aula di Montecitorio. Bersani piange all'idea di gettare al vento l'occasione e sta cercando di far saltare la trattativa. Ma il Pdl è intenzionato a non concedergli alibi. La seconda richiesta di Napolitano è che il programma di Monti sia anche quello del prossimo governo. Questo non solo fa di Monti il migliore candidato alla successione di se stesso, ma sbarra pure la strada alla cosiddetta foto di Vasto, cioè all'alleanza Pd-Idv-Sel, o anche al solo accordo Bersani-Vendola: il governatore della Puglia, come lui stesso ripete ogni giorno, è del tutto incompatibile con il programma di Monti, e portarlo al governo significherebbe la rottura con la linea tutta fiscal compact del professore bocconiano. Cosa che l'Italia, come ha ammonito Napolitano, non può permettersi. All'azione del capo dello Stato si sommano i limiti di Bersani, che non ha il coraggio né la statura per dire a elettori e Quirinale che ci penserà lui a portare avanti il programma di Monti. Lo riconosce Stefano Menichini, direttore di Europa, quotidiano del Pd, nell'editoriale di ieri: «Il Pd è il più forte ma troppi, fuori e dentro, non lo considerano in grado di mettersi in prima persona alla guida del paese. Una percezione che è soprattutto una auto-percezione, e che rischia di diventare un complesso. Anzi lo è già». Le remore di Bersani, avverte Menichini, «cominciano a essere un problema per il suo partito».  E se il probabile vincitore delle elezioni non ha intenzione di fare la copia di Monti, per proseguire l'opera di costui non resterà che affidarsi all'originale. Il premier nega di volere prolungare la permanenza a palazzo Chigi, ma intanto non si fa scappare occasione per svelare il suo grande timore: che lo spread balzi ancora più in alto non appena lui avrà lasciato l'incarico. Sobriamente Monti non chiude il ragionamento, ma dove vada a parare è chiaro: se l'unico in grado di tenere a bada i mercati è lui, i partiti non potranno fare altro che rimetterlo in carica subito dopo il voto. Berlusconi non chiede di meglio. Anche se non lo dirà mai e ufficialmente correrà per guidare il Paese, sa che il recupero è quasi impossibile. Tant'è che, con realismo, spinge per un sistema elettorale che dia un premio di maggioranza basso, non superiore al 10% (il che non consentirebbe al Pd di governare da solo nemmeno se vincesse) e destinato solo al partito con più voti, non all'intera coalizione vincente. In modo da rendere conveniente a tutti la corsa in solitaria: il Pdl si presenterebbe senza la Lega, il Pd senza Sel né Udc. Per potersi poi contare dopo il voto e formare inevitabilmente una nuova grande coalizione: in nome del bene supremo del Paese, s'intende. Anche Monti, racconta chi lo conosce, al momento giusto sarà pronto a fare la propria parte di sacrificio, accettando di guidare il prossimo governo.  Perché allora Berlusconi intende candidarsi premier? Perché con lui il Pdl può raggiungere percentuali più robuste, ben superiori al 20%. E quindi trattare alla pari con l'alleato-rivale: nessuno dei due in grado di controllare il Parlamento, costretti a coalizzarsi di nuovo tra loro e con chi ci sta (cioè l'Udc) per fare un Monti-bis o qualcosa di molto simile. Che sarebbe comunque un governo più politico e meno tecnico di quello attuale, tanto che il ruolo dei partiti verrebbe «ufficializzato» con la nomina a vicepremier dei tre leader della coalizione: Angelino Alfano, Bersani e Casini.  Può sembrare un obiettivo sconsolante per uno abituato a vincere come Berlusconi. Eppure consentirebbe al Cavaliere di confermare un congruo numero degli attuali parlamentari del Pdl e a far restare il suo partito - anche se dovesse essere sconfitto - nella stanza dei bottoni, con pari dignità rispetto al Pd. Non quella grande vittoria in cui spera ancora parte del popolo pidiellino, ma comunque, viste le premesse, un signor pareggio. di Fausto Carioti  

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