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La Merkel ci è costata 700 miliardi

Per salvare la Grecia ne sarebbero bastati 140. I «no» della cancelliera hanno fatto esplodere l'impegno finanziario indispensabile a evitare i fallimenti a catena innescati da Atene. Ogni giorno il conto della crisi aumenta di un miliardo

Eliana Giusto
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  I no pronunciati dalla cancelliera tedesca Angela Merkel in questi due anni di crisi ci sono costati cari: circa un miliardo al giorno. Il calcolo è presto fatto. A tanto ammonta la somma degli aiuti diretti erogati  a partire dal mese di giugno del 2010,  da Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Fondo salva Stati, in sigla Efsf: European financial stability facility). Per ricostruire la contabilità che ha condotto in due anni al maxi esborso di 703 miliardi di euro messi sul piatto per evitare il crac prima alle banche e poi ai debiti sovrani, basta elencare 5 cifre che equivalgono ad altrettante erogazioni. Si comincia con la prima tranche di aiuti iniettati nelle esangui casse della Grecia il 2 giugno 2010: 110 miliardi di euro. Il 29 ottobre di quello stesso anno è stata la volta dell'Irlanda. Costo: 85 miliardi. Poi è toccato al Portogallo: 78 miliardi stanziati il 16 maggio 2011. In quello stesso lasso di tempo e fino alla fine dell'anno scorso la Banca centrale europea ha acquistato i titoli del debito pubblico di Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia. Uno shopping che all'Eurotower è costato più di 200 miliardi di euro. Più di recente, per la precisione il 14 marzo scorso, è arrivata la seconda tranche di aiuti ad Atene, altri 130 miliardi di risorse fresche per evitare la bancarotta al Paese più disastrato di Eurolandia. Ecco, fino a questo punto, gli euro messi a vario titolo sui fronti caldi dell'Europa in crisi ammontano a 603 miliardi, calcolati per difetto, visto che il valore dei bond in pancia alla Bce è un po' superiore alla cifra inizialmente prevista. Ma non è tutto. Il Fondo salva Stati (ribattezzato nel frattempo Esm, European stability mechanism) sta per essere ricapitalizzato con una dotazione di 500 miliardi di euro freschi, comprensivi però dei 100 miliardi di aiuti chiesti da Madrid per le banche spagnole in bancarotta e già, di fatto, accordati. Includendo quest'ultima voce il costo complessivo del salvataggio salirebbe a 703 miliardi, circa uno al giorno, calcolando il tempo intercorso dai primi  aiuti alla Grecia. E dire che se l'Europa fosse intervenuta tempestivamente, all'inizio del 2010, sarebbero bastati in tutto 140 miliardi per “sterilizzare” l'intero debito greco in scadenza, fornendo pure ad Atene le risorse per far fronte alle uscite correnti necessarie per garantire ossigeno alla macchina pubblica. Un intervento deciso avrebbe fermato la speculazione e disinnescato la spirale negativa che ha condotto in zona rossa - nei due anni successivi - dapprima l'Irlanda e il Portogallo e poi noi e la Spagna, lambendo addirittura il debito sovrano francese. I primi no pronunciati dalla cancelliera Merkel in quei cruciali mesi di inizio 2010 sono stati fatali a tutta Europa. A conti fatti il «nein» ripetutamente gridato da Berlino all'emissione degli Eurobond non è neppure il più costoso in questa onerosa contabilità della crisi.  Nei calcoli, fra l'altro, abbiamo volutamente omesso un altra voce in rosso: le perdite maturate nel frattempo dai mercati azionari europei, stimabili in circa 800 miliardi di euro. Si tratta infatti di perdite soltanto teoriche maturate qualora tutti i possessori di titoli quotati li dovessero vendere. Di certo  la politica imposta dalla Germania ai Paesi di Eurolandia è stata determinante per deprimere i corsi azionari. Sui quali, tuttavia, hanno pesato però molte altre variabili. Né si può far risalire l'intera responsabilità della crisi europea alla Grecia, anche se Atene - è storia - ha truccato i numeri sul proprio deficit per rientrare nei parametri di Maastricht e non essere esclusa dall'euro. Come dimenticare la tempesta finanziaria scatenata dai mutui subprime, concessi dalle banche Usa a clienti non proprio solvibili e con meccanismi tali da renderli insostenibili dopo il terzo anno di rate? Ma neppure la bolla immobiliare americana basta a spiegare quanto è accaduto sui mercati finanziari dal 2009 in poi. Le radici della crisi affondano in un substrato speculativo in cui  le banche e gli intermediari finanziari si muovevano da tempo. Se nel 1951 per ogni 1000 dollari di depositi in cartamoneta e in titoli di Stato americani le banche finanziavano il depositante con 4mila dollari, nel 2006 con gli stessi 1000 bigliettoni si arrivava ad ottenerne 673mila. Spiega bene questo meccanismo l'economista Eutimio Tiliacos in una delle ultime analisi pubblicate su suo sito (www.anesti.it): «Un ammontare mostruoso, una piramide rovesciata di proporzioni epiche fortemente in bilico e che infatti ha poi schiacciato il sistema». Per almeno i quattro quinti la pressione sui debiti sovrani degli Stati in crisi e la conseguente esplosione degli spread rispetto ai titoli tedeschi è riconducibile alla speculazione. In presenza di una politica europea meno attendista le mani forti che hanno messo in ginocchio uno dopo l'altro tutti i Paesi mediterranei della Ue (più l'Irlanda) non avrebbero avuto gioco così facile. Sarebbe stato sufficiente che frau Merkel dicesse qualche no in meno. Speriamo almeno che capisca la lezione dei mercati. di Attilio Barbieri  

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