Magistrati militanti, uno scontro politico durato trent'anni
Fra la rinuncia di Giuseppe Santalucia alla presidenza dell’associazione nazionale dei magistrati che si appresta - guarda caso- ad una offensiva di scioperi e referendum contro la riforma del giustizia, le assoluzioni eccellenti sempre più numerose e frequenti e un’intervista dell’insospettabile Luciano Violante alla Verità contro i suoi ex colleghi «combattenti», ormai senza più «senso della misura», mi sono sentito ributtato indietro di una trentina d’anni. A quando tutto cominciò. Come se si stesse chiudendo un cerchio. E sapete qual è il volto che di più mi è tornato e mi torna alla mente? Quello di Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici e persino Ninì per quell’amico speciale che gli fu per qualche tempo il sindaco di Milano Paolo Pillitteri, recentemente scomparso. Sono tornato indietro ai giorni in cui l’allora sostituto procuratore della Repubblica s’impose alla mia attenzione di direttore del Giorno per quel cartello appeso, anzi ostentato alla porta del suo ufficio milanese in tribunale per dissociarsi dalle proteste dei colleghi, invece associati al loro sindacato, che protestavano contro il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Al quale credo che sarebbe piaciuta la riforma della giustizia all’esame ora del Parlamento, comprensiva di quella separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici di recente condivisa pubblicamente anche da Di Pietro.
Che da anni, si sa, non è più magistrato e neppure politico, come decise di diventare fra le perplessità neppure tanto nascoste del suo ormai ex superiore Francesco Saverio Borrelli. Di Pietro si trova, sia pure da ex, nei riguardi dell’associazione nazionale dei magistrati presieduta dall’uscente Giuseppe Santalucia, critico come con l’associazione nazionale dei magistrati presieduta nel 1991 da Giacomo Caliendo, e poi da Mario Cicala, e poi da Elena Paciotti, e via via scalando con Edmondo Bruti Liberati, Luca Palamara e - ripeto e concludo - Giuseppe Santalucia. Lui, Di Pietro, il molisano ruspante che ha rappresentato nell’immaginario collettivo e politico la magistratura di punta delle “Mani pulite” ambrosiane, che faceva sognare i manettari ghigliottinando la cosiddetta Prima Repubblica, in una cosa è riuscito come in un miracolo: a sottrarsi alla storia e ai tentacoli dell’associazione nazionale dei magistrati. Ne ha visto da lontano“distinto e distante”, avrebbe detto Cossiga con una certa soddisfazione, dopo qualche delusione procurata da Di Pietro anche a lui- la crescita nella sua impropria, diciamo pure arbitraria dimensione politica.
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Trattata da più di un presidente della Repubblica, e non solo dall’immediato successore di Cossiga, che fu il collega di partito Oscar Luigi Scalfaro, come una istituzione, più che un sindacato. Con tanto di presenze deferenti ai suoi congressi e di promesse di non firmare questa o quella legge sgradita, a cominciare da quella forse o finalmente davvero in arrivo della separazione delle carriere fra toghe inquirenti e giudicanti. Ne ho almeno personalmente viste in più di trent’anni di tutti i colori, e sotto ogni maggioranza, di centrodestra o centrosinistra, e variazioni o deviazioni più o meno tecniche. D’altronde, a rimanere estranei alla crescente politicizzazione dell’associazione dei magistrati, avvertita una volta come eversiva anche da Claudio Martelli, che pure si guadagnò da Francesco Saverio Borrelli l’apprezzamento di migliore ministro della Giustizia da lui visto all’opera, non è stato solo Tonino di Montenero di Bisaccia. Furono, essendo entrambi scomparsi, e di che morte, i poveri Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Ora che il cerchio si è chiuso o sta chiudendosi, con l’associazione nazionale dei magistrati negli accampamenti sindacali e referendari delle proteste di più di 30 anni fa contro Cossiga e oggi contro la premier Giorgia Meloni avvertita come “più pericolosa” persino del temutissimo e pluriprocessato Silvio Berlusconi, c’è solo da augurarsi che la politica sappia e voglia procedere finalmente sulla sua strada. E riequilibrare un rapporto con la giustizia per troppo tempo sbilanciato. E a tal punto da essersi risolto per la magistratura in un progressivo calo della credibilità o popolarità, tanto è finito per essere avvertito dal pubblico per quello che è: sbilanciato, appunto, contro una politica che se ha perso anch’essa la fiducia popolare, come dimostra il crescente astensionismo, lo deve forse pure alla debolezza che ha dimostrato a lungo nella difesa di quel primato che è scritto nella Costituzione non meno dell’antifascismo implicito - dicono gli specialisti con o senza parrucca accademica - tanto decantato e opposto al presunto fascismo di ritorno visto nella Meloni.