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Viaggio in Kosovo, al monastero assediato dall'Islam e difeso solo dai soldati italiani

Il monastero di Decani (foto Garzillo)

Sono 25 i monaci serbi rimasti a Decani. Su di loro la minaccia degli albanesi musulmani che nel 2004 distrussero 25 chiese prima di essere fermati dalla "Folgore"

Giulio Bucchi
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Sono le 9.30. Padre Petar offre ai visitatori scortati dai militari italiani un bicchierino di grappa fatta in casa. Brucia come fuoco. «Si chiama rakija, la produce il nostro confratello Marco a Velika Hoca, è l'unico che vive lontano dalla comunità», racconta, e intanto invita a buttar giù il cicchetto trasparente. È il benvenuto offerto nel monastero trecentesco di Visoki Decani, dodici chilometri a sud di Pec, nel Kosovo occidentale. Terra di albanesi musulmani dove resistono con fatica 25 monaci serbo ortodossi diventati i custodi della tomba di Santo Re Stefano e che possono essere considerati il simbolo del lavoro del contingente italiano del Kfor Nato.  «Ci proteggono dagli assalti dal 1999, siamo fortunati ad avere i militari italiani, per noi sono come angeli - spiega padre Petar, 40 anni e una folta barba che non riesce a invecchiare il suo viso dalla pelle liscia -. Senza di loro il monastero sarebbe in gravissimo pericolo; secoli di storia, di cultura, di radici, sarebbero spazzate via dalla mano degli albanesi musulmani. Lo scorso febbraio sono state profanate cento tombe serbe nel nord perché qualcuno, a sud, ha distrutto un altare dedicato a un soldato dell'Uck (acronimo di «Ushtria Çlirimtare e Kosovës», lo storico esercito di liberazione del Kosovo, ndr). Cento tombe in un solo giorno. Immaginate cosa potrebbero fare se fossimo indifesi».  Mentre pronuncia l'ultima frase lancia uno sguardo al portone che separa il suo piccolo mondo dall'esterno. Fuori, a pochi metri dalla targa dell'Unesco che dal 2004 ricorda a tutti che il monastero è patrimonio dell'umanità, c'è una garitta con militari italiani armati che vigilano l'ingresso. Più avanti, c'è un check point, che invece ricorda ai pellegrini che il monastero è anche un obiettivo sensibile.  Negli ultimi 14 anni gli albanesi hanno provato ad abbatterlo per tre volte. «Nel 2000, nel 2004 e nel 2007», racconta Petar, che accompagna il ricordo a un involontario sospiro di sollievo. L'episodio più grave è stato quello del 2004, durante il pogrom albanese che distrusse in un solo mese 18 monasteri serbo-ortodossi e 7 chiese cristiane.  Decani avrebbe dovuto fare la stessa fine ma grazie all'opposizione dei militari della Folgore i musulmani dovettero desistere, rinunciando (per allora) al desiderio di annientare il più importante baluardo religioso ed etnico della regione e, secondo molti, dell'intero Kosovo.  Il rapporto con i soldati italiani è consolidato, c'è rispetto e riconoscenza. «Sono sentimenti costruiti col tempo, gli italiani sono speciali, il nostro legame è saldo e duraturo. Ci hanno protetto anche durante la seconda guerra mondiale dai nazisti... aspettate».  Si allontana e sparisce in una stanza riservata ai frati, attraversa una porta bassa con un decoro tradizionale che la rende a tutto sesto. Il pavimento di legno scricchiola a ogni suo passo. Sui termosifoni ci sono due foto ingiallite, una delle quali ritrae lo zar Nicola II e la zarina. Due minuti dopo Petar torna con un librone nero con un'aquila di metallo in copertina. «Questo è il nostro libro degli ospiti del 1941».  La polvere che invade l'aria mentre lo sfoglia potrebbe essere considerata anch'essa patrimonio dell'umanità, o almeno la dimostrazione del filo mai spezzato tra l'Italia e la comunità serba ortodossa. «Leggete qui: “La tradizionale ospitalità degli uomini che vivono in convento, qui trova la più bella espressione. Io che sono il primo ufficiale italiano che ha visitato questo convento e che ha fatto quanto era nella sua possibilità per evitare il saccheggio, so di venire qui ed essere considerato sempre come un amico. Firmato da Vittorio Chimenti, tenente dei carabinieri reali Kosovo, 25 maggio 1941”». Sorride soddisfatto e ripone con cura il prezioso documento. Oltre mezzo secolo dopo le parole del tenente arrivano agli artiglieri del 5° «Superga» di Portogruaro e del 52° «Torino» di Vercelli impegnati nell'operazione «Joint Enterprise». La loro base è nel «Villaggio Italia» a Belo Polje, ma il monastero è una seconda casa.  Petar offre un altro giro di rakija, racconta di essere arrivato dodici anni fa dal Montenegro ma non va oltre. Tradisce il silenzio che avvolge il monastero solo per descriverne la vita. «Abbiamo un allevamento di 200 capre, 30 mucche, un'area riservata allo studio della calligrafia, produciamo miele e vino che poi vendiamo al nostro negozio. Non usciamo mai da qui, abbiamo tutto ciò che ci serve e ognuno ha il suo ruolo. Un monaco si occupa della cucina, un altro è addetto alla falegnameria, un altro ancora alla biancheria».  Una comune di 25 monaci dai 30 ai 40 anni, che ha deciso di comunicare con il mondo solo accogliendolo all'interno. «Arriva gente da ogni parte (lo dimostrano le guide illustrate in dieci lingue diverse, tra cui il giapponese, ndr) eppure le scolaresche serbe non si avvicinano, hanno ancora paura di essere aggredite. Se gli italiani vanno via, per noi è finita». di Salvatore Garzillo

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