Stati Uniti, le baby-gang che prendono a pugni i passanti
L'atroce sport dei teenager: picchiare (e talvolta uccidere) i passanti con la pelle di colore diverso. Un giornalista afroamericano: i media tacciono per buonismo
Gang di giovanissimi teenager afro-americani stanno spargendo da almeno due anni il terrore nelle strade di tante metropoli, da New York a Filadelfia, da Saint Louis a Hoboken, dal Wisconsin al Massachusetts, con il «Knockout Game», il Gioco del KO. L'odio razziale e religioso si trasforma in divertimento da bulli che fanno del male verissimo a tanti innocenti, in qualche caso fino all'assassinio, ma l'omertà generale dei media ha minimizzato finora gli episodi, di fatto proteggendo i colpevoli. La tecnica è brutale: un giovanissimo della banda individua un passante-bersaglio, preferibilmente donne o anziani, gli si avvicina e gli sferra un pugno secco in faccia o alla nuca, come ha mostrato un raccapricciante episodio di attacco da dietro ad una giovane signora ripreso da una videocamera di un negozio e trasmesso ieri dalla CBS, che ha intervistato pure la vittima. Spesso, poco distante, i compagni assistono e applaudono all'impresa vigliacca. In America c'è la libertà di stampa, ma il bavaglio della correttezza politica può avere lo stesso effetto che fa la censura nelle dittature. Se fa tempo ad uscire un libro che documenta i casi di Knockout Game in cento città - White girl bleed a lot di Colin Flaherty (La Ragazza bianca sanguina un sacco, che racconta il fenomeno con ricostruzioni inoppugnabili in molti stati Usa negli ultimi anni) - prima che il New York Times o la Cnn facciano inchieste di denuncia sull'argomento, vuol dire che il problema della deformazione informativa è grave quanto quello dei vili attacchi, perché il silenzio sui protagonisti e sui motivi equivale a un «mandante morale». Il titolo del libro di Flaherty è la battuta di un protagonista di una di queste bravate, che ride con gli amici della gang per l'effetto sanguinoso del suo pugno da KO al volto della ragazzina colpita. «C'è gente nei media, e anche nei partiti politici, che può credere che sta cercando di evitare una guerra di razze ignorando o minimizzando questi attacchi. Ma il modo di prevenire tale guerra razziale è di stoppare questi atti, non nasconderli», ha scritto Thomas Sowell, intellettuale nero controcorrente e conservatore nel primo articolo sul fenomeno, apparso con grande risalto, e dovizia di responsabilità a carico dei colpevoli e della stampa mainstream reggicoda, sul New York Post. Il titolo del suo servizio, «Balordi mettono gli ebrei nel mirino mentre il disgustoso gioco del pugno invade NYC», si riferisce all'inchiesta in corso della polizia di New York sui vari episodi successi a Brooklyn, tutti contro ebrei. Ray Kelly, il commissario, sta valutando se considerare i reati come «crimini d'odio» (un'aggravante, quando e se i colpevoli verranno presi). Gli agenti stanno indagando su sette attacchi ad ebrei a Crown Heights, ma i leader religiosi nel quartiere, che è abitato da ebrei e neri, lamentano che gli incidenti antisemiti sono iniziati in settembre e non c'è stato ancora alcun arresto. Chi colpisce non ruba nulla alla vittima, vuole «fare centro» e abbattere il target con una botta sola. Da varie parti del Paese si raccolgono documentazioni sul «gioco» e la denuncia è finalmente nazionale. In Pennsylvania, a Pittsburgh, un video mostra l'attacco a un maestro, James Addelspurger, 50 anni: un quindicenne è stato individuato come l'assalitore. A London un teenager è stato colpito alle spalle mentre a Midwood la vittima è stata una signora di 78 anni. La figlia ha raccontato che sua mamma aveva le borse della spesa e il borsellino in mano, ma il teppista non le ha preso niente, voleva solo farle male. E ci sono già tragedie: due mesi fa a Hoboken (New Jersey) il 46enne Ralph Santiago è morto dopo che un pugno fatale gli ha fatto sbattere la testa contro una staccionata: i tre arrestati, inchiodati da una videocamera, hanno 13 e 14 anni. Finora, quando erano riportati dai giornali locali, gli episodi venivano descritti come atti giovanili di «ragazzi disturbati», senza riferimento al colore della pelle di colpevoli e vittime. In Illinois, il gioco è chiamato in gergo dalle bande «la caccia all'orso polare». «Perché le vittime sono bianche», ha spiegato Sowell. Ora il velo pare finalmente strappato. Ma ci sono voluti anni di violenze prima che il fenomeno facesse la sua apparizione nelle news nazionali per quello che è, l'ultima degenerazione della «cultura diversa» dei teenager afro-americani. «Vittime» a loro modo della disgregazione della famiglia nera, che produce il 68% (dato 2011) di nati da mamme single. Glauco Maggi