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In una Libia allo sbaraglioc'è Gheddafi jr al patibolo

Seif al Islam Gheddafi

E' iniziato il processo al figlio del raìs, che rischia la pena di morte

Andrea Tempestini
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Si è aperto ieri a Tripoli con una tragica farsa il processo contro Seif al Islam, il figlio di Gheddafi che negli ultimi anni di regime aveva ricevuto dal raìs il compito di  rappresentare l'opzione “riformista”. Con lui, che è imputato per reati che prevedono la pena di morte, sono alla sbarra altri 37 gerarchi del regime. Ma Seif al Islam non era presente in aula per ragioni che sono perfetta esemplificazione del caos in cui si trova oggi il Paese dopo l'avventurista guerra di liberazione condotta da Europa e Usa, ben più che dai libici.  L'assenza del principale imputato dal processo non dipende infatti da una sua scelta, ma dal rifiuto netto delle bande di ribelli che l'hanno catturato di consegnarlo ai giudici di Tripoli. I ribelli quindi se lo tengono stretto nel carcere di Zeitan come un trofeo. O più probabilmente una merce di scambio per un riscatto che il governo di Tripoli dovrà pagare loro in qualche forma. Naturalmente le udienze nel tribunale  - che sono state rinviate al 12 dicembre - si tengono a porte chiuse e ai giornalisti non è permesso assistere. Nel complesso, una parodia del diritto che spiega meglio di un trattato  come questo processo sarà illegale da capo a fondo, come nella “nuova Libia” non solo non esista la parvenza di una legalità, ma anche che i vincitori sono tuttora divisi da odi, rivalità, diffidenze. Il tutto,  con l'aggiunta di veri e propri sberleffi all'Onu e alla legalità internazionale, a cui pure i ribelli devono la liberazione dal tiranno. Il governo di Tripoli infatti, a sua volta, si rifiuta di consegnare Seif al Islam al Tribunale Penale Internazionale dell'Aja, disattendendo quindi a una norma cogente del diritto internazionale.  Il processo a Seif al Islam, dall'esito scontato - la forca -  è dunque  la  vetrina di un Paese che, dopo due anni dal linciaggio di Gheddafi, è sempre più allo sbando. Il Financial Times rivela che l'Eni e le compagnie petrolifere che operano in Libia perdono ben cento milioni di dollari al giorno per il tracollo delle operazioni di estrazione, trasporto e raffinazione del greggio. Dall'inizio del 2013 le esportazioni di petrolio dalla Libia si sono infatti ridotte da 1,4 milioni ad appena 200.000 barili al giorno. Una caduta dell'80%, provocata dalle tensioni militari tra le milizie che controllano il paese e le zone petrolifere  - su cui il governo di Tripoli esercita solo una sovranità formale - e da una serie di scioperi selvaggi degli addetti libici ai pozzi, alle pipelines e alle raffinerie. Ma non basta. Mentre si succedono gli attentati contro ministri del governo libico (martedì è toccato al ministro degli Esteri)  e diplomatici e sedi diplomatiche straniere (incluse quelle dell'Italia e della Francia) che sono in perenne “allarme rosso” (quando non sono chiuse per precauzione), le autorità non riescono neanche a garantire la distribuzione dell'acqua alla popolazione.  Surreale poi la situazione degli aeroporti. Lo stesso presidente della Commissione trasporti del parlamento di Tripoli, Mohammed Amari, ha ammesso che «purtroppo gli aeroporti libici sono poco sicuri per la mancanza di barriere negli scali che impediscono l'accesso ai non addetti alle aree riservate». Parlando ad al Jazeera  dell'assalto compiuto la scorsa settimana da un commando di miliziani all'aeroporto di Tripoli, che ha bloccato per un giorno il traffico aereo, Amari ha aggiunto: «Abbiamo tentato di usare alcune milizie buone per proteggere gli scali ma alla fine sono questi stessi uomini armati che con le loro azioni contribuiscono alla distruzione del sistema aeroportuale libico».  Indicativi i termini impiegati dal parlamentare: il governo libico per arginare il caos mette in campo milizie “buone”, contro milizie “cattive”, ma appena mettono le mani su un centro di potere, le milizie “buone” si trasformano subito in “cattive”. Una situazione paradossale, in un Paese allo sbando, che vede addirittura il ministero dei Trasporti obbligato a valutare addirittura l'ipotesi di chiudere i grandi scali e spostare i voli verso scali minori. di Carlo Panella

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