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La crisi per il kazako?Ecco a chi conviene:vogliono scipparci

Nursultan Nazarbaev

Andrea Tempestini
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La vecchia regola follow the money (segui i soldi) torna sempre utile quando si va a sbattere con un impiccio internazionale, che più affiora e più si complica. E puzza. Se il Watergate ha fatto traballare la Casa Bianca, ad Astana i palazzi avveniristici (e disabitati), voluti dal presidente Nursultan Nazarbaev, non vibreranno neppure. Né per lo scandaletto italiano, né per i possibili effetti su uno dei maggiori investimenti italiani all'estero. Come quello dell'Eni.  Nazarbaev è l'ultimo baluardo vivente (classe 1940) dell'Urss. Quando a Mosca c'era ancora il Politburo, e Michail Gorbaciov era  solo un giovanotto di belle speranza, già allora il «misso» kazako di Mosca, Nazarbaev, ad Alma Ata (antica capitale trasferita  oggi ad Astana), comandava. Era il 1984. Qualche decennio dopo, finita l'Urss, archiviate le repubbliche asiatiche, il Kazakhstan è esploso come nuovo Eldorado.  Fin dagli anni Sessanta Mosca, subodorando le ricchezze celate, aveva commissionato proprio ad un italiano, Eugenio B., la mappatura aerofotogrammetrica (lenti Officine Galileo, Firenze) dell'immenso territorio: oltre 2,7 milioni di chilometri quadrati. Un Paese che è una sorta di dirigibile continentale che attraversa diversi fusi orari e racchiude tutte le materie prime che si possano immaginare. Dall'oro all'uranio, terre rare e ogni metallo immaginabile. E poi un mare di gas e petrolio. Si sa che c'è un patrimonio di alcune decine di miliardi di barili, ma si tratta di stime prudenti.  Insomma, il piatto kazakho (non le tradizionali e bizzarre salsicce di cavallo essiccato) è appetitoso. L'Italia si trova in Kazakhstan un po' per fortuna, un po' per bravura (soprattutto delle imprese). Quando, negli anni Novanta,  nessuna delle grandi major petrolifere mondiali ci scommetteva, e fuggivano tutti a gambe levate, il Cane a sei zampe si mise in testa che valeva la pena di esplorare. E così l'Eni subentrò (con un contratto molto vantaggioso) ad una delle 7 Sorelle in un accordo esplorativo già definito. Le condizioni di estrazione erano (e sono) impossibili. Sbalzi termici fino a 70 gradi (+ 35° e fino a -40), perforazioni a 5mila metri sotto il mar Caspio che d'inverno gela. Mancanza di infrastrutture (c'era solo un villaggio di nomadi, dove ora sorge la cittadina di  Atyrau, a 80 chilometri dai campi in mare). E la presenza di altissime percentuali di acido solfidrico nei bacini, sostanza letale per l'uomo in dosaggi infinitesimali.    I tecnici dell'Eni, con il prezzo del petrolio in costante rialzo (tanto da giustificare investimenti complessivi superiori ai 30 miliardi di dollari), si misero di buzzo buono. E individuarono ritrovati tecnici e soluzioni innovative per rendere produttiva «la più grande scoperta petrolifera delgi ultimi 40 anni». Vennero costruiti in loco anche due rompighiaccio senza pescaggio (il Caspio gela a -40° ma non ha profondità da mare polare). Dai rubinetti anti-sbalzi alle piattaforme perforanti semoventi. Persino alcune isole artificiali protette da cordoli in cemento armato per evitare la spinta distruttiva del ghiaccio. Le stime ipotizzano, dopo inenarrabili rinvii, che il first oil sgorgherà entro il 2013, massimo 2014. Ieri, non a caso, da Londra è rimbalzata la notizia che sull'Isola D (artificiale) è stata accesa la “fiaccola”, vale a dire che si brucia finalmente il primo gas (dolce) estratto dai pozzi. Il pompaggio del gas e del petrolio per la vendita segue questo evento fondamentale. Nella prima fase si punta ad estrarre da questo singolo pozzo 180mila barili al giorno, per arrivare ad oltre 370mila barili/giorno. A regime di sfioreranno i 500mila barili/giorno. A capo del mega progetto c'è un consorzio composto dai un ristretto club petrolifero (Kmg, Eni, Exxon, Shell, Total, ConocoPhillips e  Inpex).  Qualche giorno fa anche i cinesi - dopo infiniti corteggiamenti partiti nel 2003 - sono riusciti a metterci il becco sborsando una fiche da 5 miliardi di dollari per una quota modesta. L'iniziativa della China Petroleum (Cnpc), per rilevare l'8,4% del consorzio Ncoc (messo in vendita da ConocoPhillips), ha deluso le ambizioni dell'indiana Ongc Videsh. Però sulla rotta Russia-Kazakhstan-Cina passa il futuro della geopolitica energetica mondiale.  Ma non c'è solo l'Eni in questo sperduto Paese delle yurte mongole. Una cinquantina di grandi e piccole aziende, annusato l'affare, hanno sede ormai stabile ad Astana. C'è il fior fiore di quelle infrastrutturali (Impregilo, Todini, Italprogetti), e una manciata di coraggiosi pionieri. Ad oggi gli scambi commerciali valgono oltre  5 miliardi annui. L'Italia, una volta tanto, è tra i primi partner. La “Visione” del futuro dello Stato kazako - pianificata da Nazarbaev per  i prossimi 50 anni - è incardinata su uno “sviluppo sostenibile” facendo leva proprio sulle risorse naturali. E sugli investimenti esteri (oltre 100 miliardi) che arrivano copiosi proprio nella speranza di mettere i denti sui bocconi golosi. Per aprire i pozzi l'Eni ha anche accettato di piantare alberi (che d'inverno vengono rimossi) e aperto una scuola di formazione. Per legge il 95% dei lavoratori in piattaforma è mongolo. Pardon: kazako. di Antonio Castro

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