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In Kosovo a far da barriera all'odioEcco la vita dei nostri soldati

Ci sono anche 500 nostri connazionali nel Paese in cui, da secoli, albanesi e serbi sono divisi dai rancori di una lunga guerra

Andrea Tempestini
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La spia albanese inquadra, prende la mira e spara una raffica di fotografie a chiunque attraversi il ponte sul fiume Ibar nel centro di Mitrovica. Da una parte la minoranza serba che non riconosce il Kosovo come Stato, dall'altro i «koa», kosovari-albanesi, che rappresentano il 93 per cento della popolazione. Scene di vita quotidiana in una cittadina vicino al confine con la Serbia che ricorda la Berlino degli anni '60. A Mitrovica, infatti, convivono - senza mai incontrarsi - due etnie che si combattono da secoli e che solo da pochi anni, grazie alla presenza dei soldati della Kfor, hanno deposto le armi. O quasi. Omicidi, attentati e vendette sono ancora frequentissimi, ma la situazione è nettamente migliorata rispetto al 2008 quando il Kosovo autoproclamò la propria indipendenza dalla Serbia. «La vita nelle città è ripresa a pieno ritmo, solo nelle campagne sopravvivono i rancori della guerra» racconta il colonnello Ascenzo Tocci, da poco rientrato in Italia dopo sei mesi al comando del Multinational Battle Group West, che controlla il settore occidentale del Kosovo.  La presenza della missione Nato (circa 5100 uomini, di cui oltre 500 italiani) è necessaria per evitare scontri e per ricostruire le infrastrutture e le istituzioni di un Paese grande come l'Abruzzo in cui convergono enormi interessi criminali e un odio etnico-religioso le cui origini risalgono al medioevo. Scorrendo la storia del Kosovo a ritroso è difficile stabilire torti e ragioni: le vittime di oggi sono i carnefici di ieri in un ciclo ininterrotto. Così i nostri soldati si trovano a presidiare i monasteri ortodossi e a pattugliare i villaggi abitati dalla minoranza serba per proteggerli dalle vendette e dai colpi di coda di una guerra che non pochi vorrebbero ancora combattere. Un compito delicato che richiede grande equilibrio ad ogni singolo militare sul campo, ma gli attestati di stima e gratitudine che i nostri contingenti hanno ricevuto da parte di entrambe le etnie confermano il buon lavoro svolto. «I nostri ragazzi sono ben visti da tutti - e non è retorica - poiché sono sempre stati imparziali grazie all'addestramento e forse anche all'indole italiana» spiega il colonnello Tocci.     Oltre alle attività quotidiane di controllo del territorio, i soldati italiani sono impegnati nell'addestramento della Kosovo Police e della Kosovo Security Force, l'unica forza armata di cui il Kosovo è autorizzato a dotarsi, con funzioni di protezione civile, sminamento e antincendio. Il colonnello Salvatore Carta è capo della Military Civil Advisor Administration, l'organismo internazionale che nel 2009 ha creato la Kosovo Security Force. «Fra i circa 2500 uomini che compongono la Ksf sono presenti tutte le etnie che vivono in Kosovo e non abbiamo mai avuto problemi di integrazione. Al momento tutti i battaglioni sono pienamente operativi». Secondo il colonnello Carta «nel giro di pochi mesi la Ksf sarà in grado di operare e addestrarsi in piena autonomia».  La Nato non ha ancora stabilito una data per il ritiro della missione e fino ad allora il contingente italiano, già ridotto progressivamente fino al numero attuale di circa 550 uomini, sarà presente. Il perché si intuisce parlando con la gente. Se da una parte ci sono moltissimi ragazzi iscritti all'università che vivono come nel resto d'Europa, dall'altra ci sono gli adulti che hanno vissuto la guerra in prima persona e ne portano i segni indelebili. Gente per cui è impensabile farsi curare da un medico di un'altra etnia. Genitori di figli disabili che rifiutano le cure di un centro che accoglie anche kosovari di origine serba. Sedicenti “professionisti della guerra” che fanno la guardia a una fossa comune di soldati serbi sotto lo sguardo attento di Ratko Mladic riprodotto in una gigantografia. Per non parlare dei cimiteri - tuttora - profanati da ambo le parti. Secondo un carabiniere veterano delle missioni nei Balcani «ci vorranno 20 anni, cioè una generazione, perché l'odio svanisca».  L'accordo firmato a Bruxelles lo scorso 19 aprile dai premier di Pristina e Belgrado è un passo in avanti decisivo per l'ingresso nell'Unione Europea della Serbia e per la normalizzazione interna del Kosovo. Ma la missione è tutt'altro che compiuta. Secondo Andrea Margelletti, presidente del Cesi, Centro Studi Internazionali, «i politici italiani dovrebbero dare più visibilità alle missioni con visite più frequenti e di più alto livello. Solo così si potrebbe comunicare agli italiani l'importanza di una missione, come quella in Kosovo, fondamentale per la stabilità di tutta l'Europa». di Francesco Patti da Mitrovica (Kosovo)

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