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Obama a caccia di terroristiLi trova prima il New York Times

Il quotidiano intervista in un lussuoso hotel di Bengasi Abu Khattama, considerato il mandante dell'attacco: quello che l'amministrazione cerca da settimane

Matteo Legnani
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  di Maria Giovanna Maglie Com'era la decisione fermissima ribadita con orgoglio da Barack Obama nei due dibattiti finora tenuti contro il rivale? Catturare e giudicare ideatori ed esecutori della strage di Bengasi nella quale ha perso la vita l'ambasciatore Americano in Libia, Chris Stevens, insieme ad altre tre persone (due erano marines). Beh, gli ha dato volentieri una mano il New York Times, giornale amico anzi amicissimo, ma che a uno scoop non rinuncia, figurarsi se è facile a realizzarsi come questo di intervistare nel bar di un albergo di lusso affollato di Bengasi appunto il signor Abu Khattala, che si gusta il fresco del giardino, si beve un frappé alla fragola, se la ride del governo libico e di quello americano. Sì, perché Khattala è considerato da inquirenti locali, Cia e servizi segreti vari uno dei capi dell'attentato, e non pare proprio preoccupato di nascondersi o tentare l'esilio. E la notizia può, anzi deve, essere utilizzata dallo sfidante repubblicano Mitt Romney nel prossimo e ultimo dibattito del 22 notte. Certo, nella speranza che non ci sia una Candy Crowley fan di Obama come pseudo moderatrice, pronta a parlare in difesa e per conto del presidente, nella certezza che  può essere accusato di aver mentito e continuare a farlo con più di una buona ragione. Khattala, tra un sorso di frappé e l'altro, informa che l'attuale governo libico è un colabrodo, che non vede proprio chi potrebbe arrestarlo; accusa gli Stati Uniti di giocare con le emozioni nazionali e di usare l'attacco per raccogliere voti.  Manda a dire che la sua milizia, la Ansar al-Shariah,  è sul campo la più forte, pronta a estendersi, forte di complicità e simpatie tra i gruppi armati alleati del governo post Gheddafi. Spiega che non è un militante attivo di Al Qaeda, ma che ci si unirebbe con orgoglio in nome di sharia e supremazia dell'islam. Conclude ambiguamente che la protesta popolare contro l'Occidente per la diffusione del film che si prende gioco di Maometto c'era ed era autentica, che lui e la sua milizia ne hanno approfittato per entrare nel consolato americano e impadronirsi delle armi, compresi esplosivi e silenziatori. Notizia non suffragata da prove, ma destinata a peggiorare la polemica contro il governo americano che manteneva il consolato tanto sguarnito e insicuro nonostante le pressanti richieste di rinforzi. Tutti i testimoni hanno visto Abu Khattala quella notte, nessun dubbio sul suo ruolo, anche se lui nell'intervista sostiene di essere arrivato lì per caso.  A domanda su eventuale rimorso, risponde che non conosceva i morti, dunque non gliene frega niente.  Naturalmente Khattala si dice contrario alla democrazia perché è il contrario della legge islamica, ed è sostenuta da apostati. Tuttavia sostiene di avere un ottimo rapporto con gli altri leader delle milizie di Bangasi, praticamente le uniche forze governative sul campo, perché hanno combattuto insieme per far fuori Gheddafi. Tanto che riserva loro una coda velenosa: ne ha incontrati due, e fa i nomi, proprio la notte dell'attacco al consolato, davanti al palazzo. In coda all'intervista, il New York Times precisa che ci sono decine di testimoni che hanno riconosciuto Abu Khattala come il capo dell'attacco al compound americano, un attacco con mezzi e armi di alto livello. Per carità, l'intera storia della «rivoluzione» libica contro il dittatore Gheddafi, che l'Occidente adulava e riceveva fino a pochi mesi prima e che ha fatto massacrare contro il rispetto di qualsiasi diritto umano, è complicata e ci riguarda tutti, ora che sta scattando il primo anniversario e vengono fuori rivoli di verità peraltro evidenti quanto le bugie fin dal primo giorno; ora che Human Rights Watch chiede l'incriminazione dei libici e della Nato per crimini contro l'umanità, ma tanto non se ne farà niente.  Ora si potrebbe dire anche che la Libia non fu e non è solo un disastro di Barack Obama e di Hillary Clinton, che ne recano responsabilità insieme a Francia, Inghilterra e alla pur riluttante - ma per questo anche più colpevole - Italia. Ma si può dire invece che nella gestione del dopo Gheddafi , fino all'infame assalto al consolato, il presidente democratico degli Stati Uniti è totalmente responsabile di un comportamento imbelle, altro che comandante in capo, di aver ignorato le richieste di aiuto e di sicurezza del personale, di non aver ascoltato rapporti circostanziati del pericolo, di aver lasciato lievitare e crescere a dismisura la balla del film blasfemo responsabile della protesta popolare, fino ad aver consentito a Hilary Clinton di assumersi per intero la responsabilità dello scivolone, degno del miglior Jimmy Carter. Ieri è stato reso noto un rapporto della Cia che ventiquattr'ore dopo la morte di Stevens diceva chiaramente che di popolare e di protesta a Bengasi non c'è stato niente, solo una goffa copertura di un attacco terroristico premeditato con armi pesanti. Romney farà bene ad alzare la voce martedì, gli americani su queste cose si incazzano, mica come noi che dei marò dimenticati in India ce ne infischiamo.  

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